L’ARCHEOLOGA DEL VINO

di PAOLO CARUSO (agronomo) – Ai tempi del Coronavirus anche operazioni colturali di routine come la potatura possono diventare imprese ai limiti dell’impossibile. Martin Foradori Hofstätter, proprietario di una delle più importanti cantine dell’Alto Adige, ha cercato per settimane di far arrivare in Italia le sue otto lavoratrici rumene, specializzate nella potatura dei vigneti. Donne capaci di realizzare questa delicata operazione, senza la quale la produzione del vino dell’annata successiva subirebbe gravi scompensi. Quando ha capito che la burocrazia avrebbe impedito l’arrivo di queste donne, ha dovuto noleggiare un jet privato per assicurarsi la realizzazione di quanto necessario al suo vigneto. Il produttore altoatesino ha anche provato a rivolgersi a manodopera locale, ma il tentativo è risultato vano: la difficoltà di reperire manodopera locale in agricoltura, resta uno dei nervi scoperti venuto a galla in questa pandemia.

Questa criticità è stata affrontata anche da Sonia Spadaro, una giovane donna siciliana laureata in Economia e Commercio, ma con una enorme passione per l’archeologia che, per varie vicissitudini, non ha potuto tradurre in mestiere. Sonia non si è mai arresa e – in qualche modo – alla fine è riuscita a vivere il suo sogno: solo che, da aspirante archeologa di reperti storici e artistici, si è trasformata in una recuperatrice di biodiversità vegetale e di… sapienza umana. Oggi riesuma vitigni antichi alle pendici dell’Etna che rischiavano di andare definitivamente perduti.

Per la sua attività è stato coniato il termine di “viticoltura eroica”, un concetto presente sulla stampa specializzata italiana sin dai primi anni Cinquanta e che comprende le tipologie di coltivazione svolte in condizioni estreme (grandi pendenze, elevate altitudini, presenza di gradoni o terrazze, etc.) rispetto alle coltivazioni tradizionali.

La soluzione di Sonia al problema della manodopera è stata una naturale conseguenza del motivo per cui si è avvicinata all’amore per la terra e per il vino. Ha conosciuto don Alfio, un contadino depositario di straordinarie conoscenze contadine, uomo di altri tempi che potava le piante solo con la luna calante “per non vederle piangere” e che prima di abbandonare la vita terrena ha lasciato a Sonia il suo scrigno di sapere, oltre ai suoi uomini più fidati, custodi delle tecniche necessarie alla prosecuzione della vita produttiva di questi vigneti. Le vigne di Sonia vengono lavorate da personale locale, indispensabile per la continuità aziendale e per affrancarsi dal bisogno di manodopera esterna.

Il recupero della biodiversità vegetale e del “sapere contadino” in cui la nostra “archeologa” si è cimentata, non dev’essere considerata un’operazione meramente nostalgica: malgrado il ridotto numero di bottiglie prodotte, l’azienda di Sonia ha come obiettivo la sostenibilità economica dell’azienda, senza la quale ogni sforzo sarebbe destinato all’insuccesso.

Oggi l’azienda di Sonia, Santa Maria La Nave, dalle pendici dell’Etna produce vini affermati tra gli intenditori di ogni parte del mondo. La rivista “Decanter”, tra le più influenti nel panorama dell’enologia mondiale, ha inserito il suo vino bianco “Millesulmare” 2016 tra i 50 “Most Exiting” vini al mondo, al pari di soli altri 3 vini italiani.

Come nei migliori esempi di imprenditoria illuminata, la ricerca del profitto è accompagnata da una costante ricerca, sia in termini di sicurezza e sostenibilità alimentare, sia per il recupero di antiche varietà. Sonia collabora con alcuni Enti di ricerca per riprodurre antichi vitigni, come il “Terribbile”, una delle poche varietà anticamente resistente alla fillossera, o altri come il “Madama Bianca” o il “Madama Nera”, ormai in via di estinzione.

La storia di Sonia è una dimostrazione di come con passione, rispetto e amore, salvaguardando la biodiversità vegetale, il “sapere contadino” e la storia di un territorio, è possibile fare qualità ed economia, anche in tempi difficili. Anche in tempi di Coronavirus.

 

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