NON BASTA CHE SIANO TECNICI: SERVONO BRAVI

di GHERARDO MAGRI – La questione della squadra di governo fatta da tecnici o da politici è più un argomento di lana caprina che di sostanza. Perché quando si creano le categorie si cade inevitabilmente negli stereotipi beceri che creano subito le fazioni di quelli a favore o contro.

Dal mondo del “si dice”, i tecnici sembrano bravi solo a risolvere i problemi di settore nel breve termine, un contributo da toccata e fuga, mentre i politici hanno invece il quadro completo e possono affrontare sfide di ampio respiro.

In momenti di grandi cambiamenti come questi, in cui nulla è più certo dell’incerto, la realtà diventa fluida e suggerisce ribaltamenti clamorosi dei nostri spontanei pregiudizi e dei tradizionali modi di pensare. Il più clamoroso esempio è che la classe politica degli ultimi tempi (e non sono più nemmeno tanto brevi) abbia dimostrato ampiamente di non avere una visione sul futuro del Belpaese, trascurando temi fondamentali come i giovani, la scuola, la formazione della prossima dirigente ecc. ecc..

Lo spettacolo offerto da Roma ma anche da tante regioni ha mostrato molta più attenzione agli interessi di parte da incassare nel brevissimo. Tant’è che, mai come oggi, si rimpiangono in modo nostalgico i leader delle passate repubbliche, tanto vituperati.

Prendo a piene mani l’esperienza dal mondo delle aziende per picconare violentemente il concetto delle categorie imposte in modo forzoso. Il movimento più evidente è rappresentato dalle cosiddette quote rosa. A un certo punto ci si accorge che è non è più politically correct avere board a forte maggioranza maschile e bisogna ammodernarsi di colpo. Ho visto promozioni che poi si sarebbero rivelate dei flop piuttosto clamorosi.

Ancor prima l’urto traumatico giovanilista della new economy, che aveva portato nella stanza dei bottoni tanti neo trentenni, che hanno provocato più danni che vantaggi: sono stato testimone oculare anche in questi frangenti di ragazzini rampanti che si spezzavano alla prima vera difficoltà. L’essere giovani e donne ha prevalso sui curriculum, sulle competenze e sulle abilità. L’etichetta prima della qualità. A seguire anche le tendenze di oggi sul fenomeno LBTG, che sta consolidando molti consensi e sta orientando le scelte dei manager nelle multinazionali a riempire gli organigrammi di etnie e orientamenti i più variegati possibili. Funzionerà davvero?

Dico una banalità, che purtroppo non è più così banale: dovremmo fare attenzione alle vere capacità delle persone. Mettendo sullo sfondo età, sesso, etnia e quant’altro. Dovremmo pesare soltanto se gli individui sono pronti a gestire complessità e organizzazioni articolate, se hanno la maturità e la solidità di resistere alle pressioni, se sanno ascoltare gli interlocutori e relazionarsi con tutti, se possiedono le basi di quell’umanesimo culturale ed educativo di cui abbiamo tanto bisogno. Davanti a queste caratteristiche, il rigido e manicheo impianto della categoria si dissolve, e non ha più senso parlare di specializzazioni ad alto livello. Quelle si lasciano ai secondi livelli della squadra, guai se mancassero.

Vale ovviamente anche per la nuova “cabina di regia” di Mario Draghi. Quelli che ha scelto vanno giudicati più sui contenuti e sui risultati ottenuti, che sulla categoria di provenienza o di appartenenza. Il premier ha dimostrato di avere la stoffa per tenere testa alle economie e alle lobby più potenti, portando avanti i suoi grandi piani senza scomporsi più di tanto.

Ci viene in mente qualche politico puro che abbia fatto lo stesso negli ultimi anni? Cominciamo da Draghi, allora: non chiamiamolo più tecnico, per favore, ma semplicemente capace. E mandiamo in prescrizione le odiose etichette, una volta per tutte.

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