NO CINA, LA RIVOLTA USA NON E’ QUELLA DI HONG KONG

di MARIO SCHIANI – La mattina nel 7 gennaio i media cinesi si sono svegliati in anticipo sul resto del mondo, come sempre per via del fuso orario, e, a causa dei fatti di Washington, anche in uno stato di singolare eccitazione. Le immagini provenienti dalla capitale americana suggerivano loro un paragone facile facile e un editoriale altrettanto pronto all’uso. Il paragone è tra l’irruzione dei seguaci di Trump nel Congresso americano e quella dei manifestanti di Hong Kong nel palazzo del Consiglio legislativo, il 1 luglio 2019, l’editoriale sulle presunte incongruenze seguite a questi eventi.

Come mai, hanno ironizzato i media controllati da Pechino, i vostri sono oggi “terroristi”, “rivoltosi”, “criminali” e i nostri, allora, erano “eroi”, “ragazzi coraggiosi”, “guardie della libertà” e, in generale, tanto belli e buoni da meritare la candidatura al Nobel per la pace? Il paragone, tutto a uso interno della Cina, è utilissimo: così come l’America sbatterà in galera i suoi rivoltosi, noi faremo altrettanto con i nostri; non c’è nessuna differenza.

Ecco dunque che l’arresto, appena l’altro giorno, di 53 esponenti democratici di Hong Kong, “colpevoli” di essersi candidati alle primarie indette nel campo “pro-democracy” per quelle elezioni che ancora permettono alla gente di scegliere direttamente una parte – e una parte soltanto – dei loro rappresentanti, si spiega con ragioni di ordine pubblico, di tutela delle regole, di mantenimento delle garanzie civili e di protezione dell’“ordine” e della “prosperità”. In realtà, la colpa di queste persone è soltanto quella di aver voluto partecipare all’amministrazione della città per opporsi con più efficacia al crescente controllo autoritario esercitato da Pechino. Invece, tutti loro sarebbero in violazione della nuova “security law”, una legge che nella sua vaghezza permette alla polizia, e a chi la comanda, di arrestare chiunque esprima dissenso nei confronti del governo locale, sempre più espressione pappagallesca di quello centrale.

Il paragone tra i manifestanti di Washington e quelli di Hong Kong è offensivo e per più ragioni. Innanzitutto i profili, come dire?, sociali non combaciano: negazionisti, filo-nazi, Qanon, bigottoni generici e specifici da una parte; studenti universitari giovanissimi e comunità religiose impegnate nell’assistenza sociale dall’altra. Basti dire che oltre il 75% dei manifestanti di Hong Kong si è diplomato o frequenta un college universitario: a occhio, la violenta reunion dei Village People vista a Washington conta una percentuale almeno un poco inferiore di fisici nucleari e studiosi dell’opera di Walt Whitman.

Ma se non è la laurea che fa il patriota, le condizioni di partenza conteranno pure qualcosa. La protesta dei fan di Trump rivendica un’elezione quando i voti dicono il contrario e quando tutti i meccanismi di tutela e di controllo confermano il verdetto dei voti: sarà pure una “manifestazione di disagio” della quale tener conto, per carità, ma il sistema americano ancora prevede alla radice meccanismi di giustizia e di garanzia che non possono essere travolti solo perché un populista alza la voce pro domo sua. Al contrario, gli abitanti di Hong Kong stanno vivendo un’erosione progressiva ed evidente dei loro diritti e si trovano davanti a un’autorità che, dopo aver disatteso gli impegni messi nero su bianco al momento del passaggio di consegne con la Gran Bretagna, mostra ancora oggi, nonostante le dichiarazioni di facciata, disprezzo per i diritti umani, mancanza di rispetto delle minoranze e continua a rimandare sine die ogni riforma in senso democratico.

A farsi sentire contro la repressione a Hong Kong, va riconosciuto, è stata soprattutto l’amministrazione Trump, specie per bocca del segretario di Stato Mike Pompeo, ma occorre aggiungere che il tema è tra i pochi rimasti, se non l’unico, a saldare il fronte repubblicano con quello democratico, tanto che la revoca dello “special status” della città, che favoriva i rapporti commerciali con l’America, ha avuto appoggio bipartisan.

Anche l’Europa si è fatta sentire, ma a modo suo. In un documento ufficiale è stato richiesto l’“immediato rilascio” dei 53 arrestati, mentre nella stanza accanto si metteva a punto un nuovo accordo con la Cina sugli investimenti reciproci previsti nei prossimi anni. Oggi ci dicono che i parlamentari europei seguono la situazione di Hong Kong con “preoccupazione”. Una posizione nobile e solida, che però, vedrete, non metterà a rischio proprio nessun investimento.

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