COLA A PICCO IL RISTORANTE DELLA VECCHIA HONG KONG, E PURE LA VECCHIA HONG KONG

C’è l’eco di un romanzo di Baricco, in questa storia. Una storia che potrebbe appunto intitolarsi “La leggenda del ristorante in fondo all’oceano”. In verità, si tratterebbe di pura cronaca: da qualche giorno c’è, a tutti gli effetti, un ristorante sul fondo dell’Oceano Pacifico e senza alcun dubbio si tratta di un ristorante leggendario.

Per oltre quarant’anni il “Jumbo floating restaurant”, ovvero il “Ristorante galleggiante Jumbo”, è stato una delle principali attrazioni turistiche di Hong Kong: un’enorme piattaforma ormeggiata nel porto di Aberdeen – sulla costa meridionale dell’isola – ove sorgevano i tre piani dal ristorante sui quali svettava la sagoma inconfondibile di una pagoda. Una meta imprescindibile per i turisti, che vi trovavano paesaggio, colore locale e cucina cantonese, ma anche per gli indigeni. Hong Kong è una città dove spessissimo si “mangia fuori”; le abitazioni sono troppo piccole per ospitare pranzi o cene di famiglia, di lavoro o tra amici, a meno che non si convinca qualche cugino a mangiare in bagno. Dunque, i ristoranti familiari trionfano: offrono tavoli per grandi gruppi, sale per banchetti e per cerimonie private, il tutto da celebrarsi nel sonoro cicaleccio della parlata locale. Il Jumbo era tutto questo e anche di più: offriva colore, fantasia, evasione. I bambini insistevano nel trascinarvi i genitori: il menù non era forse il migliore della città, ma vuoi mettere il divertimento? E se piaceva ai bambini, perché i grandi avrebbero dovuto rifiutarlo? Qui con “grandi” si intende potenti e famosi: tra gli ospiti del Jumbo ci sono, con altri tre milioni di persone, la regina Elisabetta, Jimmy Carter e Tom Cruise.

La festa è durata fino al 2020, con la pandemia a dare il colpo mortale a un esercizio che probabilmente già soffriva la concorrenza di altre forme di ristorazione. Di fatto, il ristorante galleggiante ha chiuso per non più riaprire.

Pochi mesi fa si è presentato il problema di cosa fare della gigantesca costruzione. La società che ne detiene la proprietà – la Aberdeen Restaurants Enterprise – lo ha offerto alla città come reperto storico. A loro volta, le autorità lo hanno proposto in concessione gratuita all’Ocean Park, un popolarissimo parco divertimenti recentemente dotato di una sua stazione della metropolitana: preoccupati per i costi di gestione, i responsabili del parco hanno declinato l’offerta. Da più parti, in città, si sono levati appelli perché il Jumbo venisse in qualche modo recuperato: un simbolo della vecchia Hong Kong, un luogo leggendario. Iconico, come si dice oggi.

Niente da fare: il business ha prevalso. La Aberdeen Restaurants Enterprise lo ha disancorato con l’intenzione di ormeggiarlo presso qualche porto più economico per procedere a lavori di manutenzione e quindi rimetterlo in vendita. Durante il trasferimento, però, il maltempo ha avuto la meglio: sollevato dalle onde, il Jumbo si è rovesciato ed è affondato.

E’ sempre un esercizio un po’ vano e arbitrario trasformare un fatto di cronaca in un’allegoria, ma qui non ne possiamo proprio fare a meno: il vecchio ristorante che affonda coincide perfettamente con l’operazione di cancellazione della Hong Kong coloniale che le autorità cinesi stanno pianificando e mettendo in atto. Il governo inglese della città – che di fatto portò un villaggio di pescatori alle dimensioni di una megalopoli – sta scomparendo dai libri, dalle strade, dalla narrazione ufficiale. Un esercizio, questo, non nuovo da quelle parti, dove di fatto potrebbero vantarsi di aver inventato, oltre alla carta e alla polvere da sparo, anche la “cancel culture”. In pochi anni Mao cancellò il ricordo della Cina imperiale, svendendo all’estero opere d’arte e raffinati manufatti artigianali (completando un’operazione di impoverimento della memoria per la verità incominciata tempo prima), tanto è vero che le migliori collezioni museali cinesi si trovano oggi fuori dal confini della Repubblica Popolare, in particolare a Taiwan (che vanta una magnifica raccolta di antiche calligrafie). Più o meno lo stesso sta avvenendo a Hong Kong, dove al posto dell’era coloniale resterà presto un grande vuoto.

Con questo, si priva la gente di un importante strumento, necessario alla comprensione, all’intuizione del proprio destino. La stagione coloniale non fu affatto un’epoca di libertà: incominciò per pura avidità commerciale (legata in particolare al traffico dell’oppio) e non giunse mai a consegnare ai cittadini la democrazia, ma sviluppò in essi la certezza della legge, la conoscenza dei meccanismi che difendono l’individuo davanti allo Stato. Tutta roba che la Cina di oggi, sempre più dominante sulla città nominalmente “autonoma”, si guarda bene dal promuovere. Anzi, preferirebbe finisse in fondo all’oceano. Insieme al Jumbo e alla sua elegante pagoda.

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