SE ARRIVA GILETTI, E’ PIU’ GUERRA

Ho indugiato un poco, per evitare che l’impulsività guidasse la mano e il pensiero, ma anche temporeggiando continuo a trovare irritante Giletti in Ucraina. Forse non si può dire, perché deve prevalere la rilevazione del buon intento, ma io non ne sentivo alcuna necessità e trovo anzi ridondante la sua presenza tra le macerie. Un’inutile esposizione, in linea con il personaggio, con il protagonismo che io non riesco a non vedere in lui.

Ma esattamente cosa voleva dimostrarci Massimo Giletti? Voleva dirci che di notte a Odessa non c’è nessuno per la strada? Che di tanto in tanto, e quando esattamente non lo puoi mai sapere, parte una sirena che sancisce l’allarme bombardamento? Che piovono bombe in Ucraina? Che vi sono macerie ovunque? Che ci sono cadaveri ovunque, sotto le macerie come ai lati delle strade? Che stare da quelle parti vuol dire vivere pericolosamente?

Lo sapevamo già. Grazie Giletti, ma ci sono molti tuoi colleghi che dall’inizio della guerra ci informano egregiamente, e certamente in modo più discreto, senza l’assillo di dover essere costantemente nel fotogramma. A loro volta lavorano, stentano, corrono, ansimano senza tuttavia risparmiarci nulla e senza darci a intendere che occorrerebbe un reporter più di grido.

C’era la vita prima qui, e mostra il collo di una bottiglia di vino. Le scarpe, gli indumenti. Poi estrae una bandiera e dice che non è retorica. Ma perché suona tutto invece comunque così retorico e così prima serata? A maggior ragione perché i cadaveri sono veri e le macerie ancora fumanti.

È importante che i giornalisti vengano e vedano con i propri occhi dice, e allora tutti in Ucraina. Ci sono i giornalisti in Ucraina: ci sono dall’inizio e ripeto, non ci hanno risparmiato nulla, a nessuno è parso una simulazione, a tutti è chiaro quale orrore sia in corso per mano del boia Putin.

Proprio la collega ucraina gli dice che lo ammira, che sta rischiando la sua vita per documentare, e lui non si aspettava di meglio. E a quel paese, come sempre, chi è lì da settimane e ci racconta, documenta, sommessamente. E pericolosamente, certo.

Le parole servono a poco, dice. E anche questo già lo sapevamo, senza il sovrappiù delle sue di parole, Giletti. Stai qua vicino a me dice all’operatore, dirige il traffico con flemma da poseur, anche sotto le bombe e anche sopra le macerie. Non era necessario tutto questo, non dice niente in più di quel che vediamo ogni sera, a ogni ora, ma beatifica Giletti come impavido inviato.

Per parlare di guerra bisogna andare nei posti dove c’è la guerra, dice. Essere qui è importante, ridice. Pure apodittico Giletti, ma di sicuro intendeva che è importante ci sia lui lì. E poi anche gli altri, sicuro. Poi.

Poi cita Buzzati, “Il deserto dei tartari”, a memoria mia senza citare Buzzati in realtà, solo che a differenza del protagonista Drogo, a Odessa, in tutta l’Ucraina, tutti sanno fin troppo bene cosa potrebbe arrivare e tutti sanno fin troppo bene che arriverà molto presto.

Nell’attesa, è arrivato Giletti.

 

 

 

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