NON SOLO TRAME: E’ LA GENTE COMUNE LA VERA COMPLICE DI MESSINA DENARO

Ora siamo tutti rapiti dal gusto retró, dallo scavo archeologico che ci fa conoscere ad esempio Giovanni Risalvato, amico d’infanzia di Messina Denaro e fratello del proprietario di uno dei covi, oppure Vincenzo Pisciotta, il funzionario dell’anagrafe che firmò la falsa carta d’identità del boss.

Un gusto amaro, un po’ figlio del prurito da gossip, e che poco ha a che fare con la sostanza dei fatti. Alla sostanza dei fatti si avvicina invece il tizio che compare in un servizio messo in onda dalla trasmissione “Cartabianca”, quello che dice che è stato un errore arrestare Matteo Messina Denaro, che ci hanno mangiato tutti con Matteo Messina Denaro. “Per cent’anni ci hanno mangiato tutti” specifica, rendendo esplicita e inequivocabile una cultura che preesiste e sopravvivrà a Matteo Messina Denaro, e sia chiaro che le maiuscole sono in rispetto esclusivo della grammatica italiana.

Parlo del tizio che induce PIF, ospite a distanza della trasmissione e palermitano doc, a pronunciare ripetutamente uno stentoreo “vaffanculo”, una presa di distanza netta e assoluta nei confronti di chi antepone il tornaconto personale a giustizia, onestà e legalità, di chi mette l’interesse e il tornaconto prima di tutto e se ne frega dei delitti e degli omicidi.

Questo è un tizio residente a Castelvetrano, uno dei tanti, e uno dei tanti che certamente non hanno partecipato alla manifestazione organizzata da Giuseppe Cimarosa, nipote di Messina Denaro e nipote disubbidiente e riottoso, che in questo clima fa rima con valoroso: «Non sono io che devo andarmene da Castelvetrano, se ne devono andare i mafiosi». Queste le sue parole, che solo trenta su trentamila abitanti hanno raccolto e fatto proprie scendendo in piazza. Uno su mille, solo uno su mille.

«La gente forse adesso ha bisogno di un po’ di tempo per ragionare e trovare un po’ il coraggio. Io mi rendo conto che non è semplice, anche se non lo comprendo e mi fa un po’ rabbia. Però capisco che per molta gente sia un po’ difficile esporsi. Però è necessario. La mafia fonda la sua forza sulla paura della gente». E per finire, le parole più significative: «Noi per dieci anni, non avendo accettato il programma di protezione, abbiamo rischiato la vita».

Paradossalmente sembra più facile trovare motivi e forza di opposizione se uno è parte della famiglia e alla famiglia vuole ribellarsi, ma è evidente che in quell’uno su mille sta la combinazione che avrebbe potuto scardinare la cassaforte che in questi ultimi trent’anni ha protetto, non proprio nascosto, il boss.

Il codice segreto sta tutto qui, nell’uno su mille. Forse scopriremo omertà di regime e favoreggiamenti oscuri, ma il velo più impenetrabile siamo noi, noi conniventi, noi cittadini, del sud come del nord, che ci voltiamo dall’altra parte, a maggior ragione se abbiamo il vento in poppa.

È evidente, non è scontato denunciare, mettere a rischio sé stessi e la propria famiglia, puntare il dito e mettere in piazza la propria faccia, non è scontato e non è facile. Ma ci voltiamo dall’altra parte per molto meno, abbiamo paura di denunciare per molto meno. Eppure sia al nord che al sud ci sono persone, a volte masse, che non ci stanno e la faccia ce la mettono, per usura, per mafia, per cosa nostra o quel che sia, e queste sono le vere guide del Paese, le persone alle quali vale la pena ispirarsi.

Ma deve essere chiaro e inequivocabile: trent’anni di latitanza sono figli della connivenza, della cultura dell’omertà e dell’occultamento. Del silenzio pavido e accidioso, quanto meno. Anche se poi ci laviamo la coscienza passando subito alla dietrologia, le trame di Stato, gli accordi sottobanco, eccetera eccetera. Magari è vero pure questo, tante ne abbiamo viste nel ramo intrighi e misteri. Però niente toglie alla parte di responsabilità nostra, di noi Stato-Popolo.

Continueremo a dire che intelligence e forze dell’ordine sono arrivate tardi, diciamolo pure: ma a quanto pare buona parte della popolazione è ancora ferma ai blocchi di partenza.

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