MALDINI, IL NOME DELL’ULTIMA FAVOLA ROMANTICA

Un nonno, un figlio e un nipote che giocano e segnano nella massima serie con la stessa squadra, è una leggenda irripetibile che stanno vivendo la stirpe Maldini e il Milan in queste ore di storia calcistica.

Quando nonno Cesare vestì quella maglia per la prima volta era il 1954: aveva 22 anni. Paolo è stato il più precoce della famiglia: era un promettente sedicenne quando Nils Liedholm lo buttò in campo nel secondo tempo di Udinese-Milan il 20 gennaio 1985. Infine, Daniel Maldini appena maggiorenne (è nato l’11 ottobre 2001) debutta in rossonero il 2 febbraio 2020. A La Spezia, il 25 settembre 2021, il primo gol da professionista.

Un albero genealogico che ripete le sue gesta, la sua appartenenza, che ha reso indissolubile il suo legame con una città, un club, uno stadio (finché vivrà).

Conobbi Cesare che ero un ragazzo già alle prese con articoli e scalette di programmi radio e tv, spesso e volentieri i miei ospiti mi bidonavano all’ultimo momento e allora chiamavo Cesare. Lo avevo conosciuto grazie ad Azeglio Vicini, CT dell’Under 21 e poi della Nazionale maggiore: Vicini viveva nello stesso palazzo della mia prima redazione, a Brescia, in una tv locale. Azeglio come Cesare si erano affezionati: si alzavano dal divano o dal tavolo, si infilavano la giacca e mi raggiungevano. Brontolando e dandomi del rompiballe, ma senza mai un “no”. Mi rapiva il garbo di Cesare, la sua memoria, i suoi aneddoti, i suoi toni pacati che s’impennavano all’improvviso, la sua conoscenza. L’attenzione per i particolari, i dettagli con cui descriveva un giocatore, raccontava una partita. Quella sua dialettica rallentata che ti inchiodava all’ascolto.

Piano piano conobbi la signora Marisa, tutta la numerosa famiglia (6 figli, 3 maschi e 3 femmine) e poi i loro amici, in particolare due legatissimi a Paolo, Mario Faraci e Massimo Giudici. Da giocatore, Paolino mantenne la medesima riluttanza nel concedersi ai microfoni fin quando almeno Cesare non cominciò ad allontanarsi dal campo e dalla panchina, ma a sua volta non sapeva dire “no” se aveva davanti qualcuno del quale si fidava. Più risoluto e inquadrato rispetto al padre (almeno rispetto a quando ho conosciuto l’uno e l’altro), Paolo non gli ha mai negato riconoscenza e meriti nella sua crescita e nella sua maturazione. Erano riusciti in un’altra favola esclusiva di questo mondo da sogno che è talvolta il pallone, diventando l’uno CT della Nazionale e il figlio capitano azzurro, cosa che avvenne anche al Milan in una delle ultime stagioni di Cesare allenatore.

Ora tocca a Daniel, imbarazzato davanti ai microfoni, sfiorando il rossore delle gote, dopo la sua prima prodezza nell’olimpo. A La Spezia porta in vantaggio i rossoneri incidendo nella vittoria, non avendo né percezione né modo di capire che si è appena compiuta un’impresa assai oltre una semplice vittoria in campionato: 87 anni dopo, firma in modo indelebile la prosecuzione di famiglia nella vita del Milan, facendola apparire una cosa normale come avrebbero fatto i suoi avi.

Non è più tempo né di bandiere né di famiglie nel calcio che insegue l’abbonamento, l’app, il biglietto a 100 euro, il contratto, la firma, l’assegno. Non c’è più spazio per nessuna favola, nessuna leggenda. Sono rimasti i Maldini e il Milan a occupare il proprio spazio in una storia di oggi, con un sapore antico e romantico che di questo calcio non sembra più nemmeno fare parte.

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