L’IPOCRITA CONVERSIONE DEI GRANDI PASTIFICI VERSO IL GRANO ITALIANO

L’improvvisa quanto inattesa voglia di far sapere al mondo intero, da parte dei nostri grandi produttori di pasta, di utilizzare grano nazionale lascia sinceramente perplessi e desta anche qualche sospetto.

Quanti hanno memoria lunga fanno fatica a dimenticare le dichiarazioni, passate ed attuali, di alcuni dei maggiori imprenditori nel settore della pasta e delle associazioni che li rappresentano, che di certo non brillano in quanto a benevolenza nei confronti del grano nostrano.

Ricordiamo a noi stessi che, per la quasi totalità dell’industria pastaria italiana, la stella polare da seguire, in quanto a parametri di scelta del grano da utilizzare, è la tenuta alla cottura, gli altri aspetti qualitativi e salutistici occupano, nella sua classifica, una posizione marginale.

La tenuta alla cottura presuppone l’utilizzo di un grano dal contenuto proteico elevato e dalla significativa forza del glutine, qualità che, a giudizio di Italmopa, l’associazione che rappresenta i mugnai italiani, non sono intrinseche del grano italiano.

Prova ne sia che a conclusione della campagna di raccolta del grano nel 2023 la stessa associazione ha dichiarato che: “La produzione nazionale 2023 di frumento duro presenta significative criticità sotto il profilo qualitativo, condizione che costringerà i mulini a importare più grano dall’estero” (fonte: Informatore Agrario).

Come queste valutazioni si sposino con la nouvelle vague della presenza di grano italiano nella maggior parte delle confezioni di pasta tricolore non è (al momento) dato sapere. Ciò che è acclarata è la dichiarata necessità di Italmopa a ricorrere a volumi sempre maggiori di grano da importare.

Ma ciò che veramente lascia interdetti è la stucchevole ostentazione dell’utilizzo di grano italiano nella pasta. Addirittura il più grande produttore italiano ha pensato bene di ricordarcelo come forma di street art nei marciapiedi di Milano, alla stregua di un novello e caricaturale Banksy.

Ma guai a ricordare ai produttori di pasta e ai loro rappresentanti i loro storici giudizi sul grano italiano, precedenti ed attuali.

Abbiamo notato delle dichiarazioni, abbastanza scomposte per la verità, in quanti sottolineano questa inaspettata, ma sospetta, inversione a U, come se la loro iniziativa avesse le stimmate di un lavacro lustrale che li purificasse immanentemente e li mettesse al riparo da qualsiasi critica. Quasi un delitto di lesa maestà.

A noi sembra più che altro il riflesso condizionato da nervi scoperti.

Ovviamente la controffensiva alle critiche che vengono rivolte ai pastai e ai loro rappresentanti poggia sul deficit di produzione di grano italiano (4 mln di tonnellate), rispetto al fabbisogno dell’industria della pasta (6 mln di tonnellate), che per forza di cose deve essere colmato dall’importazione di grano estero: un dato incontrovertibile.

Ma altrettanto evidente è la flessione delle superfici coltivate a grano duro in Italia, che ha visto contrarre le sue superfici nell’ultimo ventennio di circa 400.000 ettari (dati ISTAT).

Costi di produzione alle stelle, prezzo di vendita non remunerativo, scarso ricambio generazionale e politiche scellerate, stanno allontanato sempre più gli agricoltori dalle campagne.

Per non parlare delle distese di impianti fotovoltaici che stanno sostituendo i campi coltivati, la cui retribuzione per gli agricoltori non è neanche lontanamente paragonabile ai tanto sbandierati accordi di filiera, messi in piedi da produttori di pasta ed agricoltori con la benedizione delle associazioni di categoria.

Servirebbe una decisa inversione di questo trend, guidata magari dalla politica, sempre che non sia impegnata a scendere furtivamente dai treni in ritardo.

Anche perché, con i tempi e le tensioni che corrono, non è per nulla scontato l’approvvigionamento permanente di grano dall’estero (Russia vs Ucraina docet).

Ciò che risulta oltremodo sospetta è la cronologia della mutata strategia a favore dell’utilizzo di grano italiano, che stranamente (?) è perfettamente sovrapponibile all’introduzione della norma di legge che impone l’obbligo di indicare la provenienza del grano sulle confezioni di pasta.

Obbligo che, sommato alla aumentata consapevolezza dei consumatori, ha causato un calo delle vendite di alcuni noti marchi.

Queste iniziative dei produttori sono sembrate dettate più da necessità di marketing, che da scelte convinte. Ma si sa, a pensare male degli altri si fa peccato, anche se spesso si indovina, diceva qualcuno…

Questa storia comunque conferma un dato inconfutabile: le nostre scelte di acquisto sono l’unico motivo che può modificare le strategie commerciali dei grandi padroni della produzione agroalimentare.

Non il contrario.

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