IL POLITICAMENTE CORRETTO NON E’ TUTTO DA BUTTARE

di MARIO SCHIANI – Il mio commento sui dolci “moretti” ritirati (o rinominati) dalla catena elvetica di supermercati Migros, pubblicato da altroPensiero, ha incontrato un discreto interesse e suscitato diversi commenti. Parecchi like, molte condivisioni (che a loro volta hanno generato altre condivisioni). Non dico che è diventato “virale” perché per guadagnarsi questa definizione i “numeri” devono essere infinitamente superiori e avvicinarsi alle vertiginose vette delle Ferragni e dei Fedez, e poi perché trattasi di aggettivo che, ormai, genera un misto di allarme e nausea: tuttavia, posso dire che non è passato inosservato.
Forse perché non ci sono avvezzo, il gradimento ottenuto dall’articolo mi ha ingenerato una preoccupazione. In questi tempi, e sotto queste lune, uno dovrebbe essere soddisfatto – il riconoscimento virtuale non è, oggi, la forma più ambita di successo? -, eppure non riesco a scacciare un piccolo timore: quello che il commento di cui sopra, ironizzando sulla decisione di Migros di mettere da parte i “moretti” per scongiurare ogni sospetto di razzismo, mi schieri senza riserve dalla parte di chi ha deciso di condannare e contrastare con tutti i mezzi ogni forma di “politicamente corretto”.
Subito una precisazione: di quell’articolo non rinnego niente, anzi lo confermo parola per parola. Considero l’operazione Migros sciocca e inopportuna e se è una mossa di marketing, come qualcuno ipotizza, o una “provocazione” utile ad attirare l’attenzione sul problema, la mia opinione non cambia di un millimetro. Resta il fatto che, per me, ciò non significa respingere in blocco il “politicamente corretto”.
Premesso che la definizione non mi piace (l’avverbio “politicamente” ha il potere, da solo, di rendere sospetta ogni azione che sostiene), il concetto in sé (una sorta di costante supervisione del linguaggio in modo che sia possibile levigarne per tempo ogni asperità offensiva) offre aspetti interessanti.
La mia prima osservazione è che la faccenda contiene una distorsione di base. Quando ci accorgeremo che l’umanità sarà arrivata a usare in naturalezza un linguaggio privo di termini offensivi e discriminatori vorrà dire che le malattie sottostanti – il razzismo e la discriminazione – saranno state debellate. Se ci limiteremo a martellare le schegge e i chiodi sporgenti della lingua avremo sempre, sotto l’asse piallata, un problema che ribolle e, anzi, messo sotto chiave, vedrà crescere il suo potenziale nocivo. Il “politicamente corretto”, insomma, si presenta da subito come una terapia che, concentrandosi sui sintomi, pretende di risolvere le cause del morbo.
E’ ben vero che, di tanto in tanto, l’umanità è costretta a elevare delle barriere invalicabili, ovvero dei tabù, superati i quali l’individuo si ritrova al bando, additato al disprezzo e condannato a un bagno di vergogna. Un meccanismo brutale, eppure in certi casi indispensabile, a tutela della società. Ma è pensabile applicarlo al linguaggio? Io credo di no.
La lingua è tutto ciò che abbiamo per comunicare, cooperare, tentare un avvicinamento alla parte simbolica e sacra di noi stessi e della realtà. Il fatto che sia flessibile e mutevole, pronta a evocare tanto arpeggi angelici quanto taglienti schiocchi di frusta, la rende particolarmente efficace. Limitarla significa limitare noi stessi: nel progresso, nelle aspirazioni, nelle possibilità di consolazione e di lamento, di gioia e di incanto. Imporre la rigidità del linguaggio comporta, ancor prima di un pericolo per la libertà di espressione, una mutilazione inflitta al desiderio dell’uomo di essere se stesso.
Le possibilità di applicazione del “politicamente corretto” si presentano soltanto quando è possibile codificare il linguaggio in un ambito specifico. Un esempio: nelle redazioni dei giornali è inteso che, scrivendo o presentando le notizie online e via etere, venga usata una lingua “appropriata” e dunque priva di turpiloquio, bestemmie, espressioni dialettali, riferimenti diretti ad atti o circostanze considerate volgari. Ne esce, spesso, un linguaggio un po’ ingessato e pullulante di luoghi comuni ma, sostanzialmente, sintonizzato sullo scopo che intende raggiungere. E così vale per altri ambiti: comunicazioni interne a enti e aziende, contratti, atti ufficiali, eccetera eccetera. Il linguaggio corrente, invece, non tollera di essere costretto in queste imbragature perché subirebbe di colpo un impoverimento inaccettabile. Esso fa di ogni parola una possibilità, di ogni termine una nota che è possibile allungare o troncare, far vibrare con forza o cullare perché si ingentilisca. Intonazioni e contesti trasformano di continuo il significato dei termini: “mongolfiera” è una parola perfettamente innocente, che evoca una stagione romantica del volo umano, ma se applicata a una persona in carne diventa molto offensiva.
Ecco dunque che pretendere di rimuovere a forza elementi di razzismo o intolleranza dalle parole è un esercizio futile: per chi vorrà insistere, il razzismo emergerà subito in una nuova allusione, in un sinonimo carico di sarcasmo o addirittura in un neologismo ancor più violento; tutti gli altri troveranno la rimozione ridicola e offensiva – come nel caso del “moretto” – perché ingiusta nei confronti dell’uso innocente che hanno sempre fatto di quelle parole.
C’è però un caso, importante, in cui il “politicamente corretto” può dire la sua: quando la parola offensiva è diretta a indicare e circoscrivere un gruppo di persone in base alla razza, alla religione, alla nazionalità o a qualunque altra caratteristica specifica. A quel punto bisogna fare attenzione: è inutile, per esempio, sostenere che la parola “negro” non ha, tecnicamente, un significato razzista o derogatorio. Se diventa comune usarla in senso discriminante e offensivo, o comunque se così è percepita da chi si ritrova costretto sotto quella definizione, allora non serve sbandierare il Devoto-Oli: va evitata e, a chi la usa, occorre far notare che dovrebbe piantarla. Lo dicono le regole di educazione e tolleranza ancor prima del “politicamente corretto”.
Tali parole vanno messe da parte, sempre. O quasi: l’eccezione è introdotta dal contesto storico. Al di là delle polemiche per “Via col vento” – un tremendo polpettone sentimentale ancor prima che un manifesto segregazionista -, dobbiamo ricordarci di esaminare le opere dell’ingegno sotto la luce di un certo relativismo, a meno che si intenda trascinare Shakespeare nel dibattito sul moderno antisemitismo o Mark Twain, autore delle splendide “Avventure di Huckleberry Finn”, sul terreno delle odierne discriminazioni razziali.
Chiudo qui perché questa nota sta diventando sterminata. La cosmesi del linguaggio non è a soluzione del problema perché si concentra sul sintomo e non sulla malattia. E tuttavia se è la lingua stessa a farsi direttamente discriminatoria, allora bisogna che qualcuno ce lo ricordi. Ma più che i richiami morali o moraleggianti dei tutori del “politicamente corretto”, a spazzar via dall’uso comune certe espressioni turpi dovrebbe essere la cultura: i grandi film, la musica, l’arte e la letteratura. Un buon romanzo, per esempio, fa miracoli.
A proposito di romanzi, ho sentito che ne è appena uscito uno eccezionale. Si intitola “Quel dolce nome”, e lo ha pubblicato Giovane Holden Edizioni…

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