LA GIUSTIZIA TEDESCA NON È D’ACCIAIO

di GHERARDO MAGRI – Nella notte del 6 dicembre 2007 un’esplosione di olio incandescente travolge come una nuvola di fuoco sette operai della ThyssenKrupp di Torino, che moriranno dopo giorni di atroce agonia.

Partono le indagini e seguono molti processi che alla fine stabiliscono la responsabilità: omicidio colposo e incendio doloso per negligenza in riferimento ai sistemi di sicurezza. Lo stabilimento sarebbe stato chiuso da lì a poco e qualcuno aveva pensato di non spenderci più nulla, manco due soldi per gli estintori e le manichette d’acqua. Purtroppo solo il 13 maggio 2016, a distanza di nove anni, il tribunale italiano condanna in via definitiva l’amministratore delegato tedesco Harald Espenhann a nove anni e otto mesi di reclusione, e cinque dirigenti, tra cui un tedesco – Gerard Priegnitz  – a sei anni e dieci mesi, e gli altri quattro italiani a pene comprese tra sei e sette anni.

Sorpresa: a scontare la pena iniziano però solo i quattro italiani, perché i due teutonici rientrano in Deutschland, dove la loro giustizia deve verificare che l’Italia abbia fatto le cose per bene. E sappiamo di che tipo di reputazione godiamo in certe nazioni, particolarmente tignose nel difendere i propri connazionali a prescindere. Sembra di assistere alla classica manfrina nostrana, quella che tante volte l’Albertone nazionale caricaturava nei suoi film a sfondo amaro. No, questa volta non siamo noi i protagonisti. Trattasi di un colosso multinazionale da oltre 41 miliardi di fatturato, che dovrebbe essere governata da regole precise in termini di etica e responsabilità. Hai visto mai loro lassisti e garantisti su tali argomenti? Nein.

Scatta allora la memoria storica che, insieme a una certa sensibilità, ti fa aprire oppure no le pagine della storia. Oggi è il giorno giusto per farlo. Eccone una breve sintesi. La potente dinastia dei Thyssen è sempre stata legata a doppio filo con il potere e, in particolare, con il partito nazionalsocialista. Non solo come principale fornitore di materiale bellico, ma come finanziatore attivo e convinto del regime. La primogenita di Heinrich, Margit – soprannominata la “Signora dell’Inferno” per i suoi comportamenti eccessivi e truculenti -, abitava in uno dei castelli di proprietà tra l’Austria e l’Ungheria, il Reichnitz, ristrutturato a dovere e sede permanente delle SS. Il 23 marzo del ‘45, a guerra ormai persa, Margit pensa bene di organizzare un fastoso ricevimento, l’ultimo. Nella decadenza più totale, a mezzanotte a qualcuno viene l’idea di massacrare centosessantacinque ebrei ungheresi nella dependance, così, per divertimento. I festeggiamenti continuano senza problemi per tutta la notte, immaginiamo con brindisi eccitati per la bravata. Il castello viene poi dato successivamente alle fiamme, all’arrivo dei russi. A volte, i corsi e ricorsi storici: il rogo come denominatore comune.

Dovrebbe invece essere diverso, ci aspetteremmo che la giustizia là corresse veloce e colpisse chi ha la responsabilità del comando, è tutto compreso nei lauti compensi dei top manager di un’azienda privata. E’ questo il vero punto. Chi si siede nella stanza dei bottoni sa che la gloria e i soldi vanno a braccetto con una responsabilità precisa per tutto ciò che succede nella società che dirigi. Parlo da esperto nel ramo. Volerla eluderla è da codardi, scappare è da ominicchi.

A Essen, città natale della Thyssen, però non la pensano così, tanto che a inizio 2019 vengono accolti i ricorsi dei due ineffabili tedeschi, che così pensano di averla fatta franca. Ma esultano troppo presto. Perché qualcuno li tallona anche a casa loro, nella stessa regione, a soli 81 chilometri. Passa sì un altro anno, ma il 23 gennaio 2020 la seconda sezione penale del tribunale superiore di Hamm li riconosce finalmente colpevoli. La pena è vero che si riduce a soli cinque anni, il massimo previsto per questi casi dalla loro legge, e qualcun dice già che con la buona condotta potrebbero essere ridotti alla metà. “Sette vite valgono solo due anni e mezzo per loro?”, già grida disperata la mamma di una vittima.

Il coronavirus gli dà ancora qualche mese di tempo, ma adesso è davvero questione di poco. Se non si inventano altri escamotage li vedremo varcare la soglia del carcere nel giro di qualche settimana e, forse, da lassù, Antonio-Roberto-Angelo-Bruno-Rocco-Rosario e Giuseppe avranno finalmente un po’ di pace.

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