di LUCA SERAFINI – Prima Beatrice cicciona in costume per pubblicizzare i Tampax, adesso la brutta Armine (NELLA FOTO) per Gucci che, come l’azienda di assorbenti, ha già raggiunto il suo obiettivo anche con me: marchi citati nella prima riga, pubblicità gratis e nemmeno occulta. Chiedo subito scusa ai miei simili per la terminologia, essendo io non bello e sovrappeso.
Estetica (“aesthetica”) in greco significa percezione. Nel linguaggio di Nino Frassica “non è bello ciò che piace, ma che bello, che bello, che bello”. Il punto d’incontro tra i greci e il comico italiano è la chiave di ogni riflessione: bello e brutto sono soggettivi. E simmetrici. Già, perché se ti piace il brutto, significa che per te il brutto è bello. Dunque non è brutto. Troppo complicato?
Allora suggerisco di dare un’occhiata a “L’estetica del brutto”, libro del filosofo tedesco Karl Rosenkranz. Me lo hanno regalato per scherzo durante il lockdown e adesso ho più di un pretesto per divorarlo avidamente, al di là del mio aspetto fisico lacunoso.
“Un’estetica del brutto? E perché no?”, inizia così il lavoro di Rosenkranz, il quale prosegue con il gusto descrittivo “per tutto ciò che, pur esteticamente ripugnante, è tuttavia meritevole di attenzione estetica”.
Nel nostro tempo, la distinzione è davvero molto complessa. Basterebbe ascoltare un brano di Beethoven e poi un pezzo techno, una canzone di Dalla e uno degli Sfera Ebbasta: nessun pregiudizio, perché la techno e gli Sfera Ebbasta piacciono. Molto. Fine della storia, la disquisizione filosofica termina qui, capite bene: sarebbe magnifica in un salotto del “Jamaica”, ma non ci sono più né salotti né il “Jamaica”, storico bar di Milano Brera che riuniva intellettuali per lo più imbriaghi, dunque sinceri. E ascoltarli sarebbe stato sublime.
La tenzone prosegue invece furiosa sui social dove gli amanti di Beethoven insultano gli adoratori della techno e quelli di Dalla infamano gli Sfera Ebbasta. Cioè, chi adora lo stereotipo della modella curvilinea dal sorriso e lo sguardo folgoranti, vomita su Beatrice e Armine e di conseguenza sulle aziende che le hanno ingaggiate.
La questione diventa quindi meramente un fatto non di gusto, ma di terminologia, linguaggio, educazione, civiltà, cultura: elementi – davvero – troppo rari sui social (e purtroppo non solo in quel mondo) per poter allestire un commento profondo, sensato al fenomeno. Si otterrebbero infatti due risultati che personalmente aborro: dare visibilità ai trogloditi e ripetere gratuitamente il nome dei marchi, facendo in entrambi i casi il loro gioco. Quindi, tenetevi le cicciottelle e le bruttone, leggendo i giornalisti non belli e sovrappeso, riconoscendo a tutti se volete un briciolo di ironia.
Se credete, alla fine tenetevi alla larga da tutto ciò che vi ripugna, come noi per esempio, senza dimenticare che il brutto è soggettivo e comunque – possibilmente – senza insultarci: non siamo in minoranza. Discutetene tra voi, senza imbrattare i nostri profili già così modesti di loro. E leggetevi quel libro: apre “un inquietante sguardo verso ambigui e multiformi aspetti del reale”.