IL CRUDELE DESTINO PD: IN GINOCCHIO DA UN DC

di GIORGIO GANDOLA – Letta continua. In questo weekend l’eterno enfant prodige della sinistra in movimento torna da Cincinnato (per quanto Parigi non si addica alle gramaglie) dopo sette anni di esilio, per rimettere in piedi la Ditta. Così viene definito il Pd da chi ricorda che, da quando nacque 14 anni fa, ha sempre perso le elezioni ma è sempre riuscito a governare grazie ad accordi di potere.

Letta continua. Ora l’Enrico (nella foto), gentile come il tenero Giacomo della Settimana enigmistica, ha un compito da mal di testa: tenere insieme le sette correnti impetuose che vanno dagli ex renziani più a destra di Berlusconi alla ”variante Orlando” più a sinistra di Leu. In mezzo i cattodem di Franceschini, i Giovani turchi di Orfini, i francescani di Del Rio, gli ortodossi di Zingaretti, i pontieri di Martina, che peraltro è scappato alla Fao.

Alla domanda sul perché abbia deciso di rientrare, l’Enrico risponde da tre giorni con la stessa frase: “C’erano dei cocci da raccogliere”, consapevole della sfida e della follia di chi decide di passare dai boulevard dell’”École di Sciences Po” alla tonnara del Nazareno.

Ora il quesito riguarda già l’esito: ce la farà? Lui è perfetto per incollare, completare puzzle, richiamare al centralismo democratico; nessuno è più bravo di lui nell’impartire benedizioni laiche. Il motivo è elementare: è nato democristiano. Anzi è il penultimo democristiano (l’ultimo deve ancora venire alla luce), silurato nel 2014 da presidente del Consiglio con lo “stai sereno“ di renziana memoria.

Ha ancora in tasca la copia della campanella passata a Renzi con stizza quel giorno, ma è capace di perdonare tutti – tranne il Matteo pugnalatore – in nome dell’ecumenismo del grande abbraccio progressista. Letta è un Prodi giovane, 54 anni riassunti nel titolo di un suo vecchio libro: “Costruire una cattedrale”. Quella della sinistra italiana, certamente assimilabile a una fabbrica del duomo.

Ecco un democristiano alla guida del partito rosso, destinato con lui a diventare subito rosè. Per capirlo basta elencare i suoi quattro sponsor: Mattarella, Franceschini, il conte Gentiloni e (per conto dell’Europa) Emmanuel Macron, che gli diede la Legion d’onore per avere scelto la Francia come luogo di espiazione dopo il calcione fra i glutei inflitto, a lui pisano, dal fiorentino Renzi.

Nipote di cotanto zio – Gianni, il Richelieu del Cavaliere – il tenero Enrico ha concretizzato il “ma anche” veltroniano portandolo all’eccesso: progressista ma anche conservatore, globalista ma anche a chilometro zero; centralista ma anche federatore; milanista ma anche critico contro le disfatte rossonere dell’ultimo decennio.

Questo suo essere “tutto e il suo contrario” gli ha regalato una carriera luminosa. Capo di gabinetto della Farnesina con Ciampi premier, nel 1998 diventa ministro per le Politiche comunitarie con D’Alema presidente; a 32 anni è il più giovane della storia della repubblica. È ministro del commercio con Amato, entra al Parlamento europeo, diventa sottosegretario alla presidenza nel governo Prodi. Poi finalmente premier, dritto per dritto. Non si può dire che abbia avuto una carriera a ostacoli.

Nel frattempo riesce a scrivere 21 libri, ha un ritmo più sostenuto di Simenon e Veltroni. Testi (non) imperdibili nei quali parla dell’Europa di Maastricht e delle geometrie variabili, del rilancio dell’economia e delle proposte del Pd contro la crisi, di Nino Andreatta e dell’Italia globale. I detrattori sostengono che non li abbia letti neppure lui, se non per correggerne le bozze. È un teorico del Subbuteo e della politica beat. La sua frase «Vorrei che il nuovo partito fosse costruito come Wikipedia e un quadro di Van Gogh» è ancora oggetto di studio da parte dei sociologi alla ricerca di un senso compiuto.

È Letta, il temporeggiatore sorridente, un Giuseppe Conte che ha studiato politica da quando aveva il ciuccio. È il tassator cortese che nel 2013 ha aumentato l’Iva al 22%, ma nessuno se lo ricorda. Come infilava lui l’ombrello di Cipputi dove non batte il sole, nessuno mai. In Francia ha del tempo libero, scopre i social e a differenza di Draghi li usa in modo compulsivo, mettendo insieme qualche gaffe. Per l’esattezza tre, derivate dalla sua inclinazione al politicamente corretto a tutti i costi. Come dimenticare.

Nell’intento di inneggiare alla società multietnica scrive: “Oggi a scuola i bambini imparano la presenza di colori diversi. Quando ci andavo io negli anni 70 eravamo tutti bianchi, direi quasi ariani». Insulti dai compagni postsessantottini.

Nell’intento di mitizzare l’Europa senza confini spara: “Le frontiere non hanno bloccato il virus, come la polluzione e altri fenomeni”. Ma in italiano pollution non è inquinamento, bensì l’eiaculazione notturna. Lazzi bipartisan.

Infine spiega che gli antichi romani erano più inclusivi di noi “perché elessero imperatore Claudio, nato a Lione”. I discendenti degli schiavi gli spiegano a suon di sberle che la Gallia faceva parte dell’impero, tranne Asterix, e che la gens Claudia era una delle più potenti famiglie romane.

Nessun problema, un sorriso e il timoniere globale ricomincia a twittare e a camminare verso il sol dell’avvenire. Ai contestatori l’Enrico dalle sette vite riserva sempre un’espressione da Gioconda, come a dire: “Siete solo dei criticoni”. Ma sa benissimo che i peli nell’uovo rovinano le frittate.

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