E LORO CONTINUANO A PARLARCI DEL NULLA AMERICANO

di GIORGIO GANDOLA – Scusi signor giornalista, quando chiudono la Lombardia? “Non mi faccia perdere tempo, sono nel Wisconsin”. Perdoni reporter da Pulitzer, da domani posso andare a lavorare fuori Roma? ”Suvvia con queste banalità, mi sto occupando dei flussi dell’Ohio”.

Glielo metteremmo noi un dito nell’Ohio alla più provinciale collezione di commentatori del pianeta. E agli insensibili direttori di Tg che mentre Giuseppe Conte sta richiudendo l’Italia a macchia di leopardo – quindi qualcosa da spiegare ci sarebbe – decidono di aprire i telegiornali (tutti all’unisono) con il testa a testa fra Biden e Trump. Senza dati certi, quindi sul nulla. Prima le sensazioni di Orange County, e dopo un quarto d’ora di chiacchiere i destini degli italiani.

Una scena surreale. Mentre un intero Paese (il nostro) si collegava per conoscere il proprio immediato futuro e sapere se casa sua sarà zona rossa o arancione, un reggimento di esperti faceva passerella per raccontarci la sua America, da Happy Days alle Torri gemelle. Una sequenza di boccucce a cul di gallina, una sfilata di anchormen davanti alle cartine. Del Piemonte? No, della Florida. Con i dati sensibili per capire il motivo del lockdown dolce? No, con i dati stucchevoli dell’interlocutorio zero a zero nella regione dei grandi laghi. E a questo punto abbiamo capito che non stavano parlando di quello manzoniano, né del lago Trasimeno dove Annibale bastonò le legioni romane.

La febbre americana ha contagiato la nostra informazione a tal punto da dedicare al commento pre voto più tempo che a quello post voto. Senza contare il durante, con interminabili maratone sul nulla, mentre i numeri arrivano giustamente con il contagocce. E lì, l‘esercito degli esperti dà il meglio di sé. Più il caos calmo del voto americano avanzava nella notte e poi nella giornata, più il giornalista collettivo pontificava barcamenandosi fra rudimenti di Tocqueville e le scelte della lobby di Hollywood. Per chi ha votato Ben Affleck? Sono crucci.
Tutto sul nulla, tutto prima dell’incoronazione. Un interminabile sabba autoreferenziale fatto di elementari riferimenti cinematografici e di pessime letture (Tom Wolfe e Philip Roth non li hanno mai sfiorati). Con uno scenario davanti al quale neppure i cronisti sportivi cascano in trappola: quello del pronostico sbagliato. Fino all’altroieri Donald Trump era finito, gli autorevoli sondaggisti del “New York Times” l’avevano certificato: Biden avanti di 17 punti. Il reprobo a casa, questa volta nessun dubbio. La promessa era la stessa di quattro anni fa con Hillary Clinton: non c’è partita. Complimenti. E invece eccoli lì, l’Impresentabile e il Dormiglione, punto a punto come nel basket quando le partite diventano serie.

Fatta la tara alle estemporaneità di The Donald, a noi frequentatori occasionali del bar sport sezione Esteri sembrava strano che gli americani dessero facilmente le chiavi di casa a chi ha sponsorizzato le devastazioni estive, all’establishment di Washington che detesta il popolo. Ancora una volta ad alzare bandiera bianca sono stati solo i sondaggisti. Non c’è niente di facile in quel calderone multietnico che giustamente viene indicato come quintessenza della democrazia occidentale. Laggiù di solito si vince e si perde, ma prima si gioca.

Così, mentre la narrazione si dipana e il voto per posta diventa decisivo, le chiacchiere continuano e intanto arriva la notte. Scusi, ma domani mi autocertifico o vado a trovare la zia? “Che noia, stia buono. Prima pensiamo al voto nel Maine”. Dove, è cosa nota, gli articoli di colore vengono da dio perché il foliage è imperdibile.

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