CIAO GIACARTA, SI VA A NUSANTARA, L’INDONESIA TRASLOCA

E se ora che stiamo (stanno) per scegliere il nuovo presidente della Repubblica, con un gesto teatrale intriso di beffa spostassimo la capitale d’Italia da Roma a… qualche altro posto? Un posto nuovo, si badi, non un’altra città italiana dalle profonde radici storiche. Il presidente eletto non si ritroverebbe dunque a esercitare i compiti specifici della sua carica in un palazzo veneziano o nella residenza torinese del sovrano del Regno di Sardegna. No: parliamo di una capitale tutta nuova, sorta come un centro commerciale là dove ondeggiavano le spighe di grano e le zanzare decollavano e atterravano manco fossero all’hub di Dubai.

Una capitale inventata, una città nata dal nulla per questo scopo: l’à dove c’era l’erba, canterebbe Celentano, ora c’è un Ministero. Fantasia? Per noi sì, perché non potremmo immaginare un luogo eletto a capitale che sia sradicato dalla storia, le cui pietre non abbiamo visto l’erosione e la stratificazione dei secoli, una città in cui le guide turistiche non possano individuare alcuno scenario epocale e in cui le case non rechino in marmo il ricordo di qualche soggiorno garibaldino.

In Indonesia, invece, questo non solo è possibile, ma sta già accadendo. Il governo ha annunciato che la capitale farà trasloco: da Giacarta, confusa e torrida città da dieci milioni di abitanti, a Nusantara, un centro tutto ancora da edificare nella regione di Kalimantan, dominata dalla foresta tropicale. E’ da chiarire subito che il governo non intendere trasferire 10 milioni di giacartesi trasformandoli in nusantari: la gente rimarrà dov’è, si sposterà solo l’apparato governativo e, naturalmente, tutto quello che a esso necessita per funzionare, comprese le residenze di ci lavora. Si spera tuttavia che la mossa possa giovare anche a Giacarta, oggi soffocata da un tremendo smog e strangolata da un traffico anche peggiore. Non si comprende però se il trasferimento rimedierà in qualche modo al problema più grave di Giacarta: la subsidenza. La città sprofonda in media di 25 centimetri all’anno, è soggetta a devastanti alluvioni e neppure lontanamente riceve la quantità di acqua pura di cui avrebbe bisogno.

In ogni caso, il dado è tratto: il governo conta di trasferire i primi uffici operativi a Nusantara entro il 2024, ovvero nel giro di due anni, un tempo da noi insufficiente perfino per riunire in seconda convocazione la Commissione urbanistica. Ma l’Asia del XXI Secolo è così: un cantiere aperto, un continente alla rincorsa dell’Occidente – e teso al suo superamento – a colpi di asfalto, cemento e grattacieli di cristallo. La pietra storica, il sasso sul quale fu incoronato l’imperatore, il muro contro il quale i fedeli pregano da millenni: cose senza senso da una prospettiva che fa della crescita vistosa – ovvero visibile – il traguardo più ambito. Le megalopoli dell’Asia non hanno segni particolari: Colossei e torri Eiffel da riprodurre nei souvenir e se li hanno durano lo spazio di un anno per poi essere soppiantati dal nuovo, dal più grande, qualche volta dal più mostruoso. E’ forse la differenza che passa tra un mondo anziano e in declino, il nostro, a uno giovane, in ascesa, il loro. Il primo ha certo più saggezza e conosce il valore della memoria (ma anche lo stallo della nostalgia): il secondo non sente ragioni, vede un futuro che si può raggiungere in ascensore e preme freneticamente il bottone.

Gli ambientalisti denunciano il rischio ecologico: la costruzione della nuova città comporterà la distruzione almeno parziale di un habitat dove vivono specie animali rare, come gli orangutan. Ognuno vede che sostituire gli orangutan con l’homo sapiens rappresenta una perdita secca in fatto di civiltà, ma tant’è: la decisione, come detto, è presa. Non è affatto una novità che una città nasca al preciso scopo di diventare capitale: si ricordano i casi relativamente recenti Naypyidav che nel 2005 ha soppiantato Yangoon quale capitale del Myanmar, di Canberra in Australia (1927) e naturalmente di Brasilia (1960). Non di può dire che queste città, nate per così dire dall’alto, senza Romoli e Remi a battezzarne la semina, ma solo con architetti ad assisterle nel parto, siano state un gran successo. Segno forse che una città non si può inventare ma bisogna che cresca poco a poco a colpi di necessità, spinte economiche e recessioni, perfino nell’alternanza di crisi e speculazioni; occorre che si riempia di rattoppi e ripensamenti, deviazioni, tangenziali, vicoli e cul de sac. Solo così sapremo viverla, spesso detestandola a morte, ma rimanendoci affezionati come a una vecchia giacca comoda che ha addosso il nostro odore e ci assomiglia.

 

 

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