TORNA DI MODA LA MEDITAZIONE, MA DIPENDE DA QUALE MEDITAZIONE

“Scopri come la meditazione può aiutarti a migliorare la tua condizione psicofisica, basta poco tempo per renderti più positiva e pronta ad affrontare le sfide della quotidianità”. Così Elisa Pietrani, su “Repubblica” di qualche giorno fa.

Mi pare di capire che Elisa Pietrani abbia come punto di riferimento la tecnica zen. Non ne so gran che di zen. Ma, scorrendo l’articolo, alla fine si capisce che meditare fa benissimo. Si fatica però a capire che cosa si deve meditare.

Questo, difatti, è il problema. Ragiono da banale uomo occidentale che, appunto, non conosce le tecniche spesso raffinate dell’Oriente. Ci si deve concentrare su se stessi, mi si dice. Ma, se l’oggetto della mia meditazione sono io stesso, la meditazione dipende molto da quello che sono io. Se sono angosciato dalla paura della morte, a che cosa serve la mia meditazione? Serve, probabilmente, a ingigantire quella paura, non a risolverla. A proposito di morte: che senso ha meditare la morte, non la morte in generale, ma la mia morte? Non lo so se quella meditazione mi porta benessere. So che mi porta a capirmi meglio, ma mi capisco meglio come essere destinato a morire. Se voglio superare quell’angoscia mi devo rivolgere altrove. In effetti, io sono quello che sono perché intrattengo un’infinità di relazioni con quello che non sono: gli altri, l’Altro.

Sì anche l’Altro con la “A” maiuscola. Se, dunque, mi devo concentrare su me stesso, mi devo concentrare, necessariamente, su “altro”. E solo concentrandomi così potrò sperare di trovare una qualche forma di pace di fronte all’angoscia della mia fine. Se uno sta annegando non si salva tirandosi per i capelli. Si salva solo se viene tirato per i capelli da qualcuno che sta fuori dall’acqua.

Per questo, io, uomo occidentale, sono impregnato da una antica verità che è mia, non di una filosofia zen. Questa: la vera meditazione, quella che mi porta le risposte che contano, non viene dalla concentrazione su di me, ma dalla decentrazione sull’Altro. Entro in me per uscirne.

Porto testardamente con me il ricordo di una frase, sentita durante un corso di esercizi spirituali, al liceo, dunque oltre sessant’anni fa. Ce la ripeté fino alla sfinimento un predicatore che si chiamava padre Amato Dagnino, morto a 95 anni, nel 2013. La frase è di Platone e dice: “Ciò che rende bella la vita è la nostalgia dell’eterna bellezza”. “Nostalgia” significa, come noto, “malattia del ritorno”: malattia che colpiva mercenari o naviganti costretti a stare lontani da casa per lungo tempo. Si guariva da quella malattia solo tornando a casa.

La meditazione, in questa ottica, è quella che tiene viva la nostalgia dell’eterna bellezza e che ci aiuta a sentire il “ritorno a casa” non come un viaggio verso l’angoscia, ma verso un porto luminoso dove cessano tutte le tempeste.

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