BASTASSE DARE LA COLPA A “GOMORRA”

Quando, da ragazzi, si giocava – e il mondo era così recente che, come scriveva Garcia Màrquez, molte cose erano prive di nome e per citarle bisognava indicarle col dito -, si giocava, appunto, a guardie e ladri. Non c’era, allora, lo schermo del telefonino a intrattenere e a distrarre: occorreva inventarsi qualcosa perché non c’era la possibilità di rivolgersi a qualcosa di già inventato. Non che guardie e ladri fosse un gioco creato dai ragazzini – per quanto se ne sapeva esisteva da sempre -, ma si poteva reinventarlo di volta in volta, tra scherzi, recriminazioni, imbrogli e perfino litigi.

Unica indispensabile premessa, dividere il campo dei giocanti tra guardie e ladri. Alcuni facevano i ladri; ad altri toccava di fare le guardie. Toccava, appunto, perché il ruolo dei ladri era il più ambito, anche se è difficile spiegare perché. Per un accresciuto senso di avventura, forse, o per la possibilità di esprimere liberamente, anche solo per qualche momento, le proprie doti di scaltrezza, indipendenza, coraggio e, diciamolo, sfacciataggine. La guardia era alla fine nient’altro che un rompiscatole il quale, individuando il fuggiasco, metteva fine a quella sua eccitante parentesi di liberazione, affrancamento dalla responsabilità, sfida verso il mondo.

In questa improvvisata analisi di un vecchio gioco da cortile sta una possibile risposta alla domanda posta dal magistrato Giuseppe Spadaro, presidente del tribunale dei minorenni di Trento, al pubblico del premio “Dodò Gabriele”, istituito in memoria del bambino ucciso nel 2009 in un agguato di mafia. In sintesi, la domanda è questa: serie tv come “Gomorra” e “Mare fuori” (ma possiamo metterci anche “I Soprano”, “Boardwalk Empire”, “Peaky Blinders” e altre) vengono mitizzate dal pubblico, in particolare dai giovani, e hanno un effetto devastante perché esaltano le imprese criminali. “Perché siete attratti da quei modelli – ha chiesto Spadaro ai giovani – e non da figure come Rosario Livatino (il giovane magistrato assassinato nel 1990 ad Agrigento)”? Spadaro, dal suo ufficio con affaccio quotidiano sulla livida realtà del crimine, ha dunque bollato le serie tv come “vergognose”.

Opinione onestissima e, come detto, comprensibile. E’ però davvero credibile che la visione di serie come quelle citate – e di film come “Il padrino”, “Quei bravi ragazzi”, “Donnie Brasco”, “Scarface” (quello del 1932, non la chiassosa reinterpretazione di Brian De Palma del 1983) -, adagiandosi sul punto di vista dei criminali finiscano per agire da agenti di reclutamento, ovvero per confondere nel pubblico la linea di demarcazione tra giusto e ingiusto, morale e immorale, bene e male? Spadaro attribuisce alle fiction un potenziale etico e didattico che però, se c’è, è ampiamente superato dall’aspetto legato al puro intrattenimento. I film horror, dopo tutto, non producono assassini seriali: spaventano, divertono, solleticano magari, ma non “ispirano”.

Vero è che nei film su gangster e affini è difficile non intravvedere un certo compiacimento nel mostrare sullo schermo la loro efferatezza, perfino quando il fine “educativo” è conclamato, ma la fascinazione che proviamo per i criminali è già in noi, non ce la mette il regista e nemmeno lo sceneggiatore. Costoro, semmai, giocano con il nostro segreto interesse per queste figure che vivono al di sopra (o al di sotto) delle regole e non sembrano soffrire, come noi soffriamo, dei mille compromessi necessari alla vita quotidiana. Ma è un’illusione, uno sfogo di durata limitata e temporanea.

Il problema posto da Spadaro – “perché non ammiriamo di più figure come Livatino?” – non si risolve creando un contro-mito, che faticherebbe a soddisfare i nostri istinti più nascosti, risvegliati in realtà dall’opposto del buon esempio (altrimenti non sarebbero nascosti), ma nel mostrare concretamente come lavoro, sacrificio, onestà e impegno contribuiscano a creare una società più pulita per tutti e a confinare, sempre di più, brutture e prepotenze all’ambito cui appartengono: prodotti di divertimento audiovisivo.

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