APERTA O CHIUSA, LA SCUOLA RESTA “IL PROBLEMA”

di ELEONORA BALLISTA – Perché tornare a scuola in presenza dovrebbe essere pericoloso se tutto è controllato e sanificato? Risposta: perché il principale “plus” del ritorno in aula – rispetto alla didattica a distanza – è la relazione sociale, il vero veicolo di diffusione del virus.

Ciò che manca davvero agli studenti lo vedo fra le mura domestiche: le mie due figlie, una al liceo e l’altra all’università, come tutti gli adolescenti, vorrebbero uscire per vedere qualcuno. <Ma ti rendi conto? – diceva una all’altra qualche giorno fa – da un anno abbiamo smesso di conoscere persone nuove>.

Ma è chiaro, la loro è l’età della sperimentazione, degli incontri.

Sì, certo, anche delle lezioni che si seguono meglio in presenza rispetto all’intera giornata davanti a uno schermo, ma quello che davvero manca è la socialità.

Il ritorno in aula sarebbe quasi sicuro se ogni studente, alla stregua di un automa, si recasse a scuola percorrendo il tragitto casa-istituto senza parlare con nessuno, senza guardare nessuno, chiuso nella sua mascherina col bavero del cappotto alzato. Una volta giunto a destinazione, dovrebbe poi entrare in classe, sedersi al proprio banco, guardare fisso il professore e, terminata la lezione, fare il percorso inverso in maniera identica, magari anche più celere.

Di intervallo e ricreazione, ovviamente, non se ne parla.

No, è chiaro che questo non è possibile.

La socialità è parte integrante della vita scolastica, è essa stessa crescita e non è eliminabile.

Quindi l’unica soluzione per tornare a scuola in totale sicurezza sarebbe concederlo soltanto quando il virus non fosse più in circolazione.

Ma l’attesa, così, rischia di essere davvero troppo lunga.

Che fare, quindi, nel frattempo?

Per trovare un compromesso almeno accettabile, sarebbe magari utile che tutti gli attori del caso non ragionassero a compartimenti stagni, a partire dalla ministra Lucia Azzolina (della quale però io non demonizzo l’operato perché avrei voluto vedere quanti altri, investiti da una pandemia mondiale a poche settimane dalla presa in carico del ministero, sarebbero riusciti a fare tanto meglio di lei), che continua a ripetere che gli edifici scolastici sono sicuri senza fare menzione del fatto che a scuola bisogna pure arrivarci in qualche modo.

Poi ci sono gli insegnanti che dicono, tra comitati, riunioni, sit-in, che “la scuola è il futuro del Paese”, che “a scuola si formano i cittadini di domani”, che “non riaprire è una sconfitta per tutti”.

Tutto vero, tutto condivisibile.

Ma proprio loro sarebbero i primi a dover sapere che un insieme di studenti sono ben più di una semplice classe di liceo: sono amici che, giustamente, vogliono stare insieme, parlarsi, ridere, camminare, giocare.

Tutte azioni tanto meravigliose quanto, in questo momento, pericolose e difficilmente contenibili, nonostante la responsabilità che i ragazzi, in effetti, dimostrano.

Perché non è che, dato l’avvio delle vaccinazioni, il covid sia scomparso. E non sembra nemmeno essersi attenuato dati i circa 500 morti al giorno riferiti dalle stime.

Non sembri una visione tragica se dico che non sappiamo ancora se ne usciremo vivi.

Qualche studente e qualche preside, dei molti intervistati in questi giorni, riesce, per fortuna, a inquadrare il vero disagio di questo momento storico, che è quello legato all’incertezza, spiegando che i continui cambi di decisione tra ordinanze di apertura e chiusura sono quanto di peggio si possa sperare per riuscire a organizzare la vita scolastica.

L’indecisione è l’unica cosa che andrebbe evitata, perché fa perdere un sacco di tempo ed è quasi più deleteria che dichiarare la chiusura totale.

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