VELTRONI, IL “MODELLO” CHE SFILA SEMPRE

di GIORGIO GANDOLA – Se guardiamo bene lo vediamo anche in qualche dagherrotipo di Abramo Lincoln; occhieggia da dietro la tuba del leader (era repubblicano ma che importa), già pronto a tesserne le lodi. È Walter Veltroni, lo Zelig della politica americana, il king maker dei presidenti. Loro non lo sanno ma vincono anche grazie a lui, più democratico, più liberal, più blues brother, più button down di loro. L’altro giorno Joe Biden si è svegliato più sereno. Quando gli hanno riferito che the italian friend lo aveva battezzato “un modello per la sinistra, l’uomo del riformismo coraggioso, una risorsa democratica” si è convinto che nessun riconteggio gli avrebbe sbarrato la strada verso lo studio Ovale.

Quello che il nonno d’America non poteva sapere è che quella frase, il Veltroni, l’aveva già sganciata come una bomba atomica negli ultimi 25 anni su Bill Clinton, Al Gore, John Kerry, Barack Obama. Forse, andando indietro, pure su Jimmy Carter nel periodo in cui, da giornalista stile Woodward e Bernstein (manco a dirlo), stava provando a salvare “L’Unità” con le videocassette di Emmanuelle Nera e Alvaro Vitali. Già allora politicamente corretto, Walter si è costruito una vita politica all’insegna dell’americanismo, diventando nel tempo più kennediano dei Kennedy. Non nel senso di John, il presidente, ritenuto troppo gaudente per via di Marilyn Monroe e di certe amicizie opache, ma del fratello Bob, l’eterno sofferente, quello del discorso di Kansas City sul pil che non regala la felicità.

Un classico per Veltroni, che negli anni 90 arrivò a scriverne la biografia senza conoscere bene l’inglese. Quando Massimo Gramellini e il sottoscritto lo scoprirono a pavoneggiare durante le Olimpiadi di Atlanta lui era vicepresidente del Consiglio (premier Romano Prodi) e si arrabbiò moltissimo. Trascorse l’estate a studiare e fece senza impaccio il discorso di Brighton di fianco a Tony Blair, un altro “modello per la sinistra, uomo del riformismo coraggioso”. Allora pareva lanciatissimo, la versione americana del postmarxismo sembrava digeribile per tutti tranne che per gli operai della Breda e della Magneti Marelli, gente da pane e salame (e zero salamelecchi) che avevano immediatamente capito i limiti del personaggio, tutto Brooklyn e poca sostanza.

Veltroni sarebbe stato un grande pubblicitario. Dopo avere copiato da Kennedy l’”I care” del Lingotto e da Obama lo “Yes we can” dell’ultima avventura in prima linea, si è dato al cinema (3 film), ai libri (a 20 abbiamo fermato la conta) e alle prefazioni (60 certificate); l’autostima non è mai andata in riserva. Dalla biografia di Zapatero a quella di Gilberto Gil, dal “Mo’ je faccio er cucchiaio” di Totti a “Gli anni delle radio libere”, dalle vignette di Disegni e Caviglia a “Maria Carta a Roma” sulla cantautrice sarda, il teorico politico del “ma anche” si è esibito su quasi tutti gli argomenti dello scibile umano. Da juventino, alla festa per uno scudetto fu scambiato per il preparatore atletico Ventrone; leggenda vuole che abbia anche firmato autografi.

Negli ultimi mesi è passato agli articoli, spesso riesce a raggiungere l’obiettivo nello stesso giorno di farsi intervistare dal “Corriere” e firmare un pensoso pezzo moralista su “Repubblica”. Come sostiene Michele Fusco su Twitter, “nei giornali, quelli ex grandi, verso sera arriva il venticello piccolo borghese per cui si alza un caporedattore: Se sentissimo Veltroni? Su cosa importa poco, l’importante è averlo in prima”.

A Roma, dove tutto si spiega con la dietrologia, dicono che sia già partita la corsa al Quirinale e che la visibilità serva a tenere alta l’attenzione sul personaggio. Ma aggiungono che la voce l’avrebbe diffusa lui. Se il Pd non ha alternative significa che la situazione è davvero grave. Eppure servirebbe “un modello per la sinistra, un uomo del riformismo coraggioso”. C’è nessuno in giro?

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