UN METAVERSO GIA’ POPOLATO DI METAMANIACI SESSUALI

Non c’è (meta)verso: in ogni angolo del mondo, non importa se sperduto o affollato di turisti, dimenticato o reso celebre dalla storia, il cretino riuscirà comunque a imporre la sua prevalenza, come Fruttero&Lucentini ebbero a notare in un loro libro. Perfino, e questa è (forse) una novità, in un angolo che non esiste,

Mark Zuckerbeg non ha fatto in tempo a lanciare il suo “metaverso”, ovvero una geografia virtuale frequentata dagli utenti della sua società Meta, che già arriva, da un vicolo digitale, l’allarmante denuncia: “Sono stata molestata da tre avatar maschi”.

Complimentoni, innanzitutto, al genere maschile che, senza perdere tempo, non si ferma davanti a un particolare come l’irrealtà pur di farsi riconoscere.

Che cosa è successo? La ricercatrice Nina Jane Patel ha raccontato che all’interno di Horizon World, la realtà virtuale creata da Meta, tre avatar “con voce maschile” l’hanno avvicinata coprendola di attenzioni non richieste. Naturalmente, i tre non si sono avvicinati a Nina in carne e ossa, ma al suo avatar, ovvero la personificazione digitale che in Horizon World la rappresenta. Meta sembra aver preso la cosa seriamente: dopo averci riflettuto, ha imposto che nel suo “mondo” gli avatar debbano tenersi a una distanza interpersonale minima di un metro e mezzo.

Come si misuri un metro e mezzo in un mondo digitale non è chiaro. Quel che è chiaro è che Meta ha imposto una misura “fisica” in un mondo che, tecnicamente, fisico non è, ribadendo così che non c’è (più) differenza tra realtà e realtà 2.0: l’estensione elettronica che abbiamo aggiunto alle nostre vite se non risponde esattamente alle stesse leggi fisiche (ed estetiche, visto il diffuso uso di filtri a levigare facce e corpi), certamente è soggetta agli stessi vincoli etici e legali. Chi molesta il mio avatar, molesta anche me. Anzi, molesta me punto e basta.

Siccome è incontestabile che nel giardino digitale della nostra esistenza abbiamo piantato gli stessi semi di sensibilità che germogliano in quello reale, la mossa di Meta è sacrosanta e probabilmente inevitabile.

Non ci resterebbe che ragionare, a questo punto, su una questione più generale: è giusto che lo sviluppo digitale delle persone e delle cose debba essere lo specchio perfetto del recinto materiale in cui vivono? Ci dicono che grazie alle tecnologie digitali siamo in grado di raggiungere luoghi che non riusciremmo mai a visitare di persona, di fare viaggi che non possiamo permetterci o che non è possibile intraprendere altrimenti, di incontrare facilmente persone lontane migliaia e migliaia di chilometri. Opportunità aggiuntive che però, alla fine, ci riconducono all’originale, cedono, in altre parole, a una somiglianza, sia nel bene sia nel male, con quanto già conosciamo. Non sarebbe invece il caso di cogliere l’occasione per inventare qualche cosa di nuovo? Una versione di noi stessi curiosa ma meno vulnerabile? Non certo per dare mano libera a molestie e bullismo telematico – un problema, questo, di notevole portata – né per garantire licenza di diffamare ai ben noti “webeti”, ovvero agli idioti da tastiera. Piuttosto, servirebbe per arrivare a una consapevolezza diversa nel frequentare il “metaverso” di Zuckerberg e quello di ogni altro magnate bigtech: se portiamo noi stessi, i nostri logorati avatar di ossa e cartilagine, con i vecchi vizi e le vecchie debolezze, sempre più bisognosi che i desideri veri o presunti vengano prontamente esauditi, finiremo per prestare il fianco ai Signori del software affinché creino attorno a noi una realtà su misura ai loro interessi.

Finora, il “metaverso” sembra solo una seducente dépendance del vecchio mondo. Nel quale, i Signori di cui sopra già fanno il bello e il cattivo tempo. Virtualmente parlando, si capisce.

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