Pur avendo sempre torto, in questa faccenda di Twitter The Donald qualche ragione ce l’ha. Il ruggito dell’impresentabile dovrebbe farci aprire un occhio. La notizia è semplice. Il presidente degli Stati Uniti, che utilizza quel social come agenzia personale di stampa (80 milioni di follower, 30 tweet al giorno, record assoluto 143) è andato su tutte le furie per due post di fatto censurati. Il tema è apparentemente secondario: la proposta del governatore democratico della California, Gavin Newsom, di adottare per le prossime elezioni presidenziali anche il voto via posta a causa dell’epidemia di coronavirus.
In realtà il sistema è un obiettivo dem dai tempi di Bill Clinton per provare a raggiungere l’elettorato delle immense periferie che non si è mai avvicinato a un seggio e che in teoria dovrebbe votare progressista. I conservatori sono da sempre contrari, Trump ha infatti paventato nei tweet il rischio di «frode elettorale». E Twitter li ha segnalati con un punto esclamativo e un avviso esplicito: «Verificare i fatti», seguito da un link in cui si sostiene che le affermazioni di Trump sono prive di fondamento in base a quanto rilevato da Cnn e Washington Post.
The Donald è caduto dalla sedia e ha accusato il suo social preferito di interferire nelle elezioni. «Stanno dicendo che la mia dichiarazione sul voto per posta, che porterà a una massiccia corruzione e alla frode, non è corretta basandosi sul fact-checking delle fake news Cnn e Washington Post. I repubblicani sentono che le piattaforme social mettono a tacere le voci dei conservatori». Poi il finale alla Trump, giusto per passare dalla parte del torto: «Faremo dei regolamenti oppure li chiudiamo».
Il problema non è la perdita in Borsa di Twitter dopo la sparata presidenziale (-1,65%), ma il segnale politico e la linea di demarcazione fra spiaggia libera e proprietà privata. Chi decide se un tweet è opinione o fake news? Twitter. Chi è depositario della verità presunta? I network amici di Twitter. Chi rischia di finire nel mirino di Twitter? Le opinioni contrarie alla sensibilità del padrone di Twitter, Jack Dorsey, e dei finanziatori di Twitter. Materiale pericoloso da maneggiare con cura. ll bollino blu Chiquita sulle «notizie spiegate bene» con i violini politicamente corretti dello storytelling fa più paura dei ruggiti di Trump.
Il motto «per gli amici tutto, per i nemici la legge» era già vecchio ai tempi di Antonio Di Pietro, alla notizia in purezza ormai non credono più neppure gli stagisti. Non a caso, a far esplodere il presidente è stato il link al Washington Post di Jeff Bezos, il patron di Amazon, che siede al tavolo degli over the top digitali del mondo. I signori della comunicazione sono loro, e se hanno potuto permettersi di correggere l’uomo più potente del mondo significa che lo hanno ormai sostituito. E non hanno più il volto da nerd di David Zuckerberg mentre balbettava scuse liceali davanti al Congresso, preso con le mani nella marmellata di Cambridge Analytica.
La polemica fa risaltare la vera notizia: non soltanto Trump è in campagna elettorale. Ma anche i campioni in felpa della Silicon Valley, i faraoni lievemente sociopatici del Ceo Capitalism, che vantano un Pil superiore a quello di mezza Europa, hanno uno speciale algoritmo per piazzare le sedi dove si pagano meno tasse. E vorrebbero vederlo morto.