Nel 2007, l’uscita del libro “La casta”, scritto dai giornalisti del “Corriere” Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, segnò l’inizio di una rivoluzione che, oggi, possiamo dire non inferiore a quella avviata, nel 1992, dall’inchiesta giudiziaria “Mani pulite”. Se la seconda rivelò l’opaco sistema – per usare un eufemismo – del finanziamento dei partiti, il primo mise a nudo lo sconsiderato spreco di denaro pubblico inteso a mantenere nella bambagia gli eletti al Parlamento e non solo. Stipendi d’oro, bonus, esenzioni, sconti e, privilegio particolarmente irritante, succulenti vitalizi.
Come già accaduto per “Mani pulite”, il sacrosanto scandalo sollevato da “La casta” servì anche ad alimentare carriere politiche e perfino a giustificare l’esistenza di interi movimenti popolari. E’ questo, in fondo, il punto di partenza di quello che oggi chiamiamo “populismo” e che una volta avremmo etichettato come qualunquismo. Nient’altro che il soffio diretto su una fiamma antica, mai completamente estinta, allo scopo di ravvivarla. L’ancestrale tizzone sotto la cenere, là dove cova la disistima popolare nei confronti del potente, brace che mai veramente si spegne. Rappresenta la convinzione intima, inestirpabile, che chi comanda ne approfitta sempre e comunque per arricchirsi. Tanto è vero che già nel 1831 Gioacchino Belli esprimeva il concetto nel suo inconfondibile romanesco: “C’era una vorta un Re che dar palazzo / mannò ffora a li popoli st’editto / Io so’ io, e vvoi nun zete un…”. Seguiva rima con “palazzo” che non era, come tutti avrete pensato, “arazzo” o “intrallazzo”. E prima che Alberto Sordi facesse sua la battuta nel film “Il marchese del Grillo”, correva l’anno 1948 quando Totò – a Repubblica Italiana freschissima di conio – in “Fifa e arena” commentava: “A proposito di politica: non si potrebbe mangiare qualcoserellina?”.
Una volta attizzata la fiamma, il tema dei privilegi goduti da “lorsignori” diventa per un certo periodo centrale ed esclusivo. L’ondata moralizzatrice si dedica solo e soltanto a fare i conti in tasca a deputati, senatori, consiglieri regionali, sindaci e assessori. Con risultati a volte eccellenti (costretta a battere la ritirata, la “Casta” tende a sforbiciare gli emolumenti più scandalosi), a volte discutibili: amministrare una città anche di medie dimensioni, visto l’impegno e le competenze che comporta, merita una remunerazione adeguata, e non ridotta sulla base di una presunta avidità genetica di sindaci e assessori.
E però bisogna ammettere che come il popolino non smette di pensare male, gli eletti a Palazzo, una volta giunti a tiro della marmellata, non resistono mai alla tentazione di ficcarci dentro le dita. Il 5 luglio scorso, per esempio, il Consiglio di garanzia del Senato, nell’ultima seduta utile prima del rinnovo, ha sospeso il taglio ai vitalizi dei senatori che abbiano svolto almeno una legislatura prima del 2012, ripristinando il calcolo pensionistico sulla base delle retribuzioni e non più dei contributi. Un bel regalo, non c’è che dire: passato, per la cronaca, con il sì del presidente Vitali, già di Forza Italia, e di un ex M5S componente del Consiglio, il no di Lega e FdI e l’astensione del Pd (che quando vede in giro una zappa non esita mai a sferrarsela sui piedi).
Per l’associazione degli ex parlamentari si tratta di un provvedimento che ripristina lo “stato di diritto”, ma il prezzo di questo presunto rientro dal caos è ovviamente un’ingiustizia: a nessuno di noi è infatti concesso di ritoccare la propria pensione o quella altrui. Perfino se e quando formalmente giustificato, dunque, il “regalino” (o “regalone”) riflette il vizio congenito del potere, che Pasolini definiva “anarchico” appunto perché In grado di “fare praticamente ciò che vuole”. Ma anche nello scandalo che scaturisce dall’arbitrarietà del potere, Pasolini vedeva un’occasione per il potere stesso: “Gli italiani – scriveva – si sentono tranquilli davanti a ogni forma di scandalo se questo scandalo ha dietro una qualsiasi forma di opinione pubblica o di potere; perché essi riconoscono subito, in tale scandalo, una possibilità di istituzionalizzazione e, con questa possibilità, essi fraternizzano”.
Nella sortita estiva, un po’ vergognosa, del Consiglio di garanzia, la classe politica italiana ha dunque visto l’occasione di perpetuare i propri vizi. E anche un po’ i nostri.