SPIACE PERSINO A NOI, CHE NON C’ENTRIAMO COI POOH

di JOHNNY RONCALLI – Non sono un fan, bene precisarlo da subito, semmai sono vittima dei Pooh. Vittima come l’intera popolazione italiana negli ultimi cinquant’anni e passa, che lo si ammetta o meno. Vittima nel senso che tutti sanno chi sono i Pooh, tutti hanno ascoltato, o per lo meno sentito le loro canzoni, quasi tutti almeno una l’hanno anche canticchiata. Possono negare quanto vogliono i senza macchia, non gli crederemo. Senza accorgersene magari, o per storpiarne il senso, una melodia, un verso, un inciso, volenti o nolenti sono rimasti incollati, come edera. Nessuno è rimasto incolume, insomma.

La scomparsa di Stefano D’Orazio ha un sapore simbolico. Per il gruppo, innanzitutto, che pure già da tempo aveva iniziato ad ammainare le vele, per la musica melodica italiana e per l’Italia in fondo. Che ti piacciano o meno, ci sono istituzioni che paiono eterne, hai la sensazione che non se ne andranno mai e che siano sempre state lì, al loro posto.

Da batterista scalcagnato, un pizzico di cameratismo ce lo infilo in questa rievocazione, assieme a qualche rimembranza personale. Ad esempio, il ricordo della vicina di casa di quando avevo 18 anni o giù di lì: io a far girare i miei dischi rock, lei, mentre sbrigava le faccende di casa, a far girare a tutto volume la raccolta con i successi dei Pooh. Gara persa in partenza, vinceva lei, cantava pure. E tu che puoi fare: se non puoi sconfiggere il tuo nemico, fattelo amico, diceva Giulio Cesare o un bruto come lui, non ricordo. Non che mi fossi fatto amico della vicina, ma delle melodie dei Pooh in fondo sì. Quelle degli anni sessanta e settanta, inutile far gli schizzinosi, rimangono appiccicate.

Mio padre stesso, batterista a sua volta, aveva in casa, tra album e 45 giri ben più nobili (per me), una copia di “Noi due nel mondo e nell’anima/Nascerò con te”. Non bastasse, aneddoto avvolto nelle nebbie del mito per quel che riguarda la mia famiglia, sosteneva e ancora sostiene di aver suonato con Roby Facchinetti nei lontani anni sessanta. O, con il proprio gruppo, in una occasione nella quale suonava anche il Roby nazionale, quale delle due non si è mai capito. In famiglia siamo tutti un po’ infallibili profeti, sempre mio padre sostiene che in quella occasione disse proprio a Roby, più o meno, “non andrai da nessuna parte, lascia perdere”. Appunto.

I Pooh, e Stefano D’Orazio con loro, dal 1971, nonostante il funesto oroscopo di mio padre, come un gas inarrestabile si sono insinuati nelle vite degli italiani, con il beat degli inizi, con la lieve fase progrèssive dei primi anni settanta, in particolare con l’album Parsifal del 1973, ma in definitiva sempre fedeli alla melodia facile e corale che li ha fatti amare e al contempo li ha resi prevedibili e talvolta insopportabili, con quel loro essere sempre solari e via via banali musicalmente.

Oltre che batterista, Stefano d’Orazio fu anche autore di diverse liriche delle canzoni dei Pooh, come del resto Valerio Negrini, primo batterista del gruppo che a D’Orazio fece posto per dedicarsi interamente alla stesura dei testi. E come Valerio Negrini, spentosi nel 2013, anche per lui è giunta l’ora dell’ultima rullata.

Vedi il destino, vedi il sapore simbolico, di nuovo. Per milioni di italiani è un pezzo che si stacca dal loro giocattolo preferito, per tutti gli altri un pezzo che si stacca da un giocattolo col quale comunque avevano familiarità.

Magari non ci piacevano e non ci piacciono, ma conosciamo tutti almeno una loro canzone e l’abbiamo anche intonata. Magari quella che non ci piaceva proprio per niente.

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