“SPATRIATI”,’ UN CAPOLAVORO DELLA NARRATIVA O DEL CONFORMISMO?

Non si parla di libri che non sono stati letti, non si dovrebbe, anche se qualcuno sul tema ha scritto pagine divertenti e incoraggianti. Ad ogni modo non si dovrebbe e non lo farò.

Piuttosto, parlerei di quel che so e conosco, o almeno sto scoprendo, nella fattispecie di quanta voglia mi è venuta di leggere il libro vincitore del premio Strega, a seguito della proclamazione, degli articoli e dei servizi di rito e delle parole dell’autore stesso.

Il libro si intitola “Spatriati”, l’autore Mario Desiati, firma che ignoravo fino ad oggi, ma è una mancanza tutta mia evidentemente, considerato che il primo libro risale al 2003 e il trofeo appena conseguito non è la prima affermazione.

Le parole che da subito mi restano appiccicate addosso, un po’ vischiose e in conseguenza moleste, sono dell’autore stesso, il quale in un’intervista dichiara: “ Il termine ‘Spatriati’ è un’elevazione al cubo della parola “queer”. Inoltre ha addirittura la schwa finale (nel dialetto pugliese, nda), in tempi di linguaggio inclusivo mi è sembrato un segno”.

Schwa in effetti è un segno, un segno grafico (Ə) che indica la via di mezzo tra il maschile e il femminile, la via di mezzo o la via traversa, purché indistinta e avvolta nella nebbia, mentre “queer”, termine inglese che significa bizzarro, curioso, ma anche checca o finocchio, in generale indica la cultura della non appartenenza sessuale, della non identificazione tradizionale, dell’eccentrico, con diramazioni in tutte le forme artistiche possibili. Detto in modo stringato e un po’ approssimativo, mi rendo conto.

Nessun problema, la parola e la cultura queer preesistono a Desiati e ne siamo avvolti, più o meno consapevolmente, ma leggere quelle parole proietta più dalle parti del manifesto che del romanzo epocale, o del buon romanzo almeno.

“Con Desiati sale sul podio la generazione fluida, inquieta, libera”, mi informa Raffaella De Santis, su “Repubblica”, e se sull’inquieta e libera posso chiudere un occhio, ammesso che vi sia mai stata una generazione non inquieta, sul fluida comincio a spostare il peso del mio fondoschiena da un gluteo all’altro, chiaro sintomo d’inquietudine, a mia volta. Cominciano a piovere insomma le parole prevedibili, quelle che nel 2022 non si possono scansare, pena essere fuori dai giochi, disallineati se si vuol provare a capire i tempi.

Rincara Sabina Minardi su “L’Espresso”: “Generazione fluida, che ha trasformato l’incertezza dei tempi e i curriculum mandati a vuoto in sguardo largo, aperto sul mondo, nel coraggio di cercare altrove il proprio posto: a Londra, a Milano, e soprattutto a Berlino, capitale della trasgressione o almeno della possibilità di sperimentare i dettagli più ruvidi dell’istinto e dei corpi (“Lì Claudia era libera, si amava e si perdeva, lavorava e mangiava, falliva e ricominciava da capo, senza mai sentirsi uno zero”)”.

Mi sposto in periferia, dalle parti di “magmamag.it”, e Maria Ducoli mi informa che “Nella città del gender fluid, le labbra di Francesco e Claudia si sfiorano, a volte da sole e altre con labbra di ragazzi o ragazze incontrati nei locali. Il genere è una categoria sbiadita, loro sono come la relazione che li unisce: tutto e niente”.

Potrei continuare e invece mi fermo. Io non so le parole del libro, ma le parole che lo circondano sembrano non poter prescindere da quello che si deve dire e non si può non dire, per essere conformi alla correttezza fintamente progressista di questi tempi. Per come la vedo io, pochi metri di distanza dalle forzature hollywoodiane, dalle cancellazioni ipocrite, in definitiva dal politicamente corretto sintonizzato sul radicalismo della sinistra salottiera.

Mi sbaglierò, naturalmente, e il libro sarà bellissimo. Nel frattempo però mi è venuta una voglia matta di rileggermi “Le menzogna della notte” di Gesualdo Bufalino, premio Strega 1988.

La voglia matta, per Desiati, ancora no.

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