SIAMO MOLTO SENSIBILI, PURE TROPPO

L’aumento della sensibilità è senz’altro una conquista civile, che segna in modo definitivo la storia moderna e le sue forme relazionali e comunicative. Se si confronta un uomo di mille anni fa con un nostro contemporaneo è indubitabile che oggi siamo molto meno violenti e rozzi, decisamente più attenti ai bisogni degli altri. Appunto, più sensibili.

A me, ad esempio, colpisce la differenza nei secoli nel rapporto dell’uomo con gli altri animali. In passato, era scontato compiere ogni genere di nefandezza senza provare alcuna colpa, oggi si riconoscono i diritti degli animali e presumo che tra un paio di secoli diventeremo tutti vegetariani e ci sembrerà una barbarie uccidere esseri viventi per mangiarli.

Per tantissime professioni diventa sempre meno importante la forza bruta, lasciando alle macchine questo tipo di compiti, ed emergono qualità quali l’empatia e la compassione. La progressiva “sensibilizzazione” del sé e della società è uno sviluppo irrinunciabile a cui diamo valore positivo e identitario del mondo occidentale: da esso nascono la salvaguardia delle differenze individuali, il rispetto delle minoranze e delle scelte individuali in genere, il riconoscimento del diritto alla privacy e tanto altro.

Anche la sempre maggior importanza che oggi diamo alla dimensione psicologica, in passato negata o derisa, si può inserire all’interno di questo movimento culturale di massa. La filosofa tedesca Svenja Flaßpöhler, nel libro “Sensibili. La suscettibilità moderna e i limiti dell’accettabile (ed. Nottetempo)”, pone la questione in termini problematici: ovvero, siamo propri certi che tutto ciò sia davvero un progresso? E se invece stessimo assistendo a una regressione collettiva?

La questione è affascinante, profonda e, lasciando perdere categorie politiche come destra o sinistra, o maschilismo e femminismo, Flaßpöhler pone un interrogativo inquietante. La nostra sensibilità sta diventando eccessiva, rendendoci paralizzati e divenendo meno capaci di agire?

Anche la ricerca della felicità propria e altrui, in sé pienamente legittima, può nascondere un trabocchetto: la psicologia sa da tempo il valore educativo della frustrazione e della capacità di tollerare i tempi dell’attesa. Stili educativi orientati in eccesso alla comprensione e all’evitamento della sofferenza non rischiano di produrre bamboccioni viziati? Quanto l’eccesso di violenza e il malessere psicologico dei giovani possono essere legati all’assenza di guide forti e autorevoli?

Più che legittimo provare ad evitare la sofferenza e tutti i sentimenti negativi, ma riconoscere la presenza della negatività è essenziale per poter vivere pienamente. Flaßpöhler sembra suggerire che esistano due versioni della sensibilità: una attiva, propositiva e da valorizzare, e una passiva, meglio definibile suscettibilità, sinonimo di immaturità e impreparazione ad affrontare la vita.

La vera resilienza, per lei, risiede nella capacità umana di agire in presenza di un pericolo. Questioni complesse, da affrontare in modo pluridisciplinare, senza i paraocchi dei pregiudizi ideologici. Il massimo della difficoltà, per i tempi nostri.

2 pensieri su “SIAMO MOLTO SENSIBILI, PURE TROPPO

  1. Cristina Dongiovanni dice:

    Da qualche tempo sto riflettendo su questa meravigliosa sensibilità, perché spesso non mi convince affatto. La trovo troppo ridondante, ostentata, come se fosse un costume più che un valore profondo acquisito tramite un sano e lento progresso ideologico della civiltà occidentale. Mi pare quasi una maschera in molte occasioni, un camuffamento perfetto per un vuoto etico che mi sa tanto di egocentrismo o per lo meno di falso altruismo. Come se fosse importante dimostrare comprensione anche se in realtà non si prova, o non ci si sofferma su cosa significhi, cosa in realtà servirebbe per agire un’empatia significativa, utile. Come se amare gli animali, odiare la guerra e parlare con comprensione della povertà o dei femminicidi fosse utile al nostro equilibrio, alla nostra fragile immagine. So che sto dicendo una cosa triste, ma la scrivo perché non vedo l’approfondimento attorno a me, ve troppa fretta, troppo passaggio frenetico sugli argomenti più sensibili appunto, come se fossero vetrine su una realtà che non ci appartiene. Un discorso a parte è quello sull’uso della psicologia invece, sulla corsa di molti ad attingere a questa scienza per comprendersi e comprendere meglio gli altri, figli compresi. E’ una buona cosa, fornisce degli strumenti in più indubbiamente, dunque ben venga. Che dietro a questo interesse probabilmente si nasconda un’insicurezza troppo profonda e visibile che appunto non fornisce basi sicure e sufficienti alle nuove generazioni che ci osservano in attesa delle parole e dei gesti di cui hanno bisogno per formarsi potrebbe essere molto vero. La cosa importante è cercare del materiale utile per sopravvivere meglio ed aiutare con un filo di competenza in più chi dobbiamo tutelare. Certo quando ci si avvicina con affanno a certe discipline c’è sempre il rischio di percorrerle in corsa senza badare troppo al raccolto che ne facciamo e che potrebbe essere mediocre, ma allo stesso modo si può incappare in qualcosa di utile. Alla fine in questo marasma di sentimenti, vuoti, tentativi, fragilità vedo me ed i miei compagni di viaggio un po’ frastornati, come se stessimo subendo anche nell’anima quel cambiamento climatico di cui ci preoccupiamo così tanto. Oppure facciamo finta?

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