Esiste, tuttavia, un’altra posizione, certamente meno nota, ma capace di capovolgere la questione, secondo cui “i mezzi prefigurano i fini”. Tale assunto era sostenuto in Italia da Marco Pannella ma, che io sappia, è da attribuire al Mahatma Gandhi, laddove sosteneva il primato assoluto dei “mezzi”. Con una metafora, egli affermava che l mezzi sono paragonabili al seme e il fine all’albero: il risultato finale dipendeva essenzialmente dal tipo di seme. Per la nonviolenza gandhiana, tranne in rarissimi casi eccezionali, la violenza doveva essere sempre bandita. Il pensiero di Gandhi, che, giova ricordarlo, fu ucciso da un fanatico religioso nel 1948, era intriso di forte spiritualità, ma non era affatto un invito alla rassegnazione o alla passività. La nonviolenza gandhiana può comportare lotta dura, persistente, può richiedere anni, ottiene risultati se collettiva. Può sembrare perdente nel breve tempo, ma sicuramente non comporta la scia di odio e violenza che ogni conflitto bellico, anche quello più “giusto”, suscita.
Il tema è tanto complesso quanto affascinante e non io ho una risposta certa. Molto spesso, anche sul piano individuale, l’uso della forza ci sembra l’unica reazione possibile per rispondere ad un’aggressione e, per quello che riguarda gli Stati, l’uso difensivo delle armi è non solo consentito ma incoraggiato su tutto il pianeta. Tuttavia, è pur vero che da millenni l’umanità sta cercando, talvolta con risultati nobili ma spesso con esiti del tutto scoraggianti, una via di dialogo e di rispetto per risolvere le controversie che interessi, opinioni, valori, culture diverse faranno sempre emergere. Forse non è alla portata di noi uomini arrivare a una certezza su quale sia la strada giusta in assoluto. Non a caso, il mondo è sempre in equilibrio precario, molto precario.