SE CI SERVE L’APP PER NON USARE LE APP

Vivremo pure, come diceva Zygmunt Bauman, in una “società liquida”, ma dal punto di vista dell’individuo dovremmo confessare di trovarci nell’era dell’appalto. Ovvero in una stagione sociale, ed etica, in cui la persona non rinuncia pienamente ai suoi obblighi ma li svolge per interposta persona. Non è, questa, una condanna né individuale né generale: ci siamo dentro tutti e sarebbe difficile puntare il dito contro qualcuno.

E’ nei fatti che la struttura del mondo, la trama del suo “tessuto”, ci ha resi interdipendenti, e questo per ragioni tecniche, pratiche ed economiche. All’interdipendenza economica e tecnica abbiamo affidato quasi tutto: siamo circondati da “specialisti” che si prendono cura di ogni aspetto della nostra vita, dalle tasse al filtro della lavatrice. Non ultimo, lo psicanalista, a sua volta alle prese con la ripulitura di qualche condotta intasata nel nostro cervello. Perfino la cura degli anziani è appaltata: non potrebbe essere altrimenti, visto il modo in cui si vive e il contesto al quale occorre conformarsi, ma certo è una constatazione triste, se pensiamo che non sempre è stato così, anzi mai è stato così se non da tempi relativamente recenti. Non ci pensiamo e non è dato pensarci: la nostra mente è altrove, attirata in egual misura dal necessario e da quel “superfluo-necessario” che mantiene il nostro status sociale. Per tutto il resto c’è uno specialista. O una app.

In questo scenario, era solo questione di tempo prima che un’applicazione da smartphone prendesse il controllo di un esercizio che da tempo abbiamo rinunciato a praticare: la forza di volontà. L’app porta l’impegnativo nome di “Freedom” (“Libertà”) e ha il compito di distrarci dai social. Proprio così: un’app per impedirci di usare altre app. Se ci accorgiamo che Facebook, Instagram e Tik Tok erodono troppo del nostro tempo, possiamo chiedere a “Freedom” di bloccarli, almeno per un certo tempo, costringendoci così a concentrarci sul lavoro o su altri impegni più necessari e stringenti come giocare a Candy Crush. Si chiama “modalità monaco” – nella supposizione che i monaci non vadano frequentando Tik Tok o spargendo “reel” su Instagram e siano ancora capaci di dedizione al loro voto – e, a quanto si legge nei media, sempre più persone vi fanno ricorso.

Come si intuisce, nulla di quello che fa Freedom non potrebbe essere fatto usando un poco di forza di volontà, ma l’app è facile da scaricare mentre della volontà è dai tempi di Schopenhauer che si è smarrito il link. Impossibile tuttavia non vedere una certa ironia in questa stratificazione: un’app per liberarci dalla dipendenza da altre app. E poi cosa? Un’altra app ancora per riportarci alle app originali? Meno ironia, e più allarme, si scorge però nella constatazione che, comunque, lo schermo dello smartphone rimane al centro delle nostre vite, perno indiscusso dell’esistenza, coperta di Linus dell’umanità. Se un problema parte da lì, anche la soluzione dovrà arrivare da lì. “Libertà” un tempo si scriveva sulle bandiere: oggi leggiamo la parola sotto un’icona confusa tra altre icone: Messenger, Google Maps, Spotify, Amazon. Chissà, presto lì dentro finiranno altre icone: “Giustizia” e “Dignità”, per esempio, anche se darà difficile conciliare quest’ultima con Ghost Sensor, l’app che permette di “individuare” i fantasmi, e Bowel Mover, quella che registra i movimenti dell’intestino con l’accuratezza di un sismografo.

Il creatore di “Freedom”, Fred Stutzman, così giustifica se stesso e i suoi utenti di fronte allo smottamento della forza di volontà che l’impiego dell’app comporta: “Società come Meta (che possiede tra le altre le piattaforme Facebook e Instagram e il servizio di messaggistica WhatsApp) impiegano centinaia di esperti per rendere le loro app sempre più accattivanti. Per l’individuo medio non è una lotta leale”.

C’è del vero, ma è anche vero che l’individuo medio, quando ci si mette, è capace di cose notevoli. Come liberarsi, se vuole, dai social – almeno per un po’ – e perfino dalla Libertà. Pardon, da Freedom.

 

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