SCUSA SE SONO BIANCO

Nel 1966 Mao Tse-dong lanciò quella che è passata alla storia come “Rivoluzione culturale”. Un movimento che, nelle intenzioni del Timoniere, doveva mettere in discussione la leadership cinese a ogni livello, dal Partito alle università, dalle fabbriche ai Comitati locali, per ripulirla da ogni traccia di reazione controrivoluzionaria. Chiunque ricopriva un ruolo di responsabilità si trovò sotto accusa e dovette rispondere delle sue presunte attività “borghesi” alle zelanti Guardie Rosse, giovani e giovanissimi radicali che, libretto rosso alla mano, procedevano a inquietanti autodafé, estorcendo confessioni e dispensando pubbliche umiliazioni. Unica figura di leader intoccabile e intoccata, quella di Mao stesso perché, come si dice a Pechino, “accà nisciuno è fesso”.

Preoccupa constatare che, oggi, si è tornati alla Rivoluzione culturale. Non in Cina ma qui in Occidente e in particolare negli illuminati Stati Uniti d’America dove, in nome del movimento “woke”, le persone di pelle bianca (non direi “razza” perché trattasi di concetto più adatto agli allevatori di beagle che agli esseri umani) sono tenute a “scusarsi” ad ogni passo per i trascorsi colonialisti, razzisti e in generale prevaricatori che la Storia, giustamente, attribuisce alle nazioni europee. Così come i “leader” messi sotto accusa dalla Guardie Rosse dovevano pubblicamente autoaccusarsi di sentimenti controrivoluzionari, così oggi chi non appartiene a una componente “oppressa” della società americana – e lo sono tutte tranne, appunto, i bianchi – deve prepararsi a chiedere scusa e confessare quei pregiudizi di cui (inevitabilmente, secondo i paladini del movimento “woke”) è portatore.

Lo ha raccontato giorni fa un’italiana di 42 anni che da quindici vive in America. La signora ha avuto la malaugurata idea di iscriversi a un master della Columbia University che avrebbe dovuto avviarla all’attività da lei prescelta: occuparsi di persone bisognose come senzatetto, tossicodipendenti, malati mentali. Dalla prova di ammissione in avanti per la signora – che si considera progressista, “perfino radicale” – è stata tutta una Rivoluzione culturale. “Nella settimana iniziale del Master dedicata all’orientamento dei nuovi iscritti, a noi studenti bianchi è stato chiesto di scusarci con i compagni di corso neri per il razzismo di cui siamo portatori”, ha raccontato. I bianchi sono di default definiti portatori di “micro-aggressioni” nei confronti delle minoranze, in particolare di neri e ispanici. “Non bisogna mai chiedere a un compagno di studi da dove viene”, spiega la signora: “Può suonare come un’implicita discriminazione etnica. Guai a chiedere verso quale campo di studi si orienta: se è nero quella parola – campo – può evocare una piantagione di cotone dove lavoravano i suoi antenati schiavi”.

Tutto questo suona, di primo acchito, ridicolo, se non fosse che nell’America del 2024, nazione che vorrebbe proporsi come modello di coesione multiculturale e che, in non pochi casi, è riuscita a produrre prove concrete della bontà di tale modello, siamo tornati alla Rivoluzione culturale cinese o, se vogliamo, ancora più a ritroso: al maccartismo, alla caccia alle streghe.

Questo modello così avanzato che nel presente vorrebbe correggere la Storia a beneficio del futuro, è in realtà figlio di un antico modo di pensare: quello degli inquisitori, dei giudici nei processi politici. Non basta, ai magistrati woke, giudicare le persone in base alle loro azioni (ammesso che ne abbiano il diritto): no, loro si attribuiscono la capacità di scandagliare le anime, radiografare le intenzioni. Non solo: davanti a loro neppure c’è la scelta tra innocenza e colpevolezza. L’imputato è per definizione colpevole, così come il povero accusato dalle Guardie Rosse era certamente borghese, decadente e controrivoluzionario. Tutto sta nel giudicare se il suo pentimento, la sua pubblica contrizione sia sincera. O meglio, se sia sufficiente a placare le smanie inquisitorie di chi si è eretto a pubblico ministero dell’anima.

E’ triste, e sconsolante, constatare quanto la “cultura” woke sia cieca al suo stesso pregiudizio, che è enorme, massiccio come una montagna capace di oscurare il sole. In base a questo perverso meccanismo, ogni giovane tedesco sarebbe oggi nazista perché per sventura ha magari avuto un bisnonno in divisa delle SS. Uniforme, peraltro, che con poche modifiche andrebbe a pennello ai giudici della Columbia University. Purché non si tratti, per carità, dell’uniforme da campo.

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