QUANDO HO RITIRATO LE MIE BAMBINE DALLA GINNASTICA DISUMANA

Le ultime, drammatiche notizie sui presunti abusi alle giovani ginnaste dell’accademia di Desio mi sconvolgono, ma non mi sorprendono.

E temo, il condizionale è d’obbligo data l’inchiesta ancora in corso, che sia tutto vero.

Anni fa iscrissi le mie due figlie, allora bambine, ad una piccola società amatoriale per avviarle ai primi passi nel mondo della ginnastica ritmica. Le clavette, la palla, il nastro da far volteggiare e anche le evoluzioni a corpo libero hanno un fascino innegabile agli occhi delle più piccole che, guardando le esibizioni in tv, dichiarano che è proprio quello che vogliono fare da grandi.

Poi, inevitabile, c’è l’impatto con una realtà fatta di sacrifici e di rinunce, indispensabili per chi vuole intraprendere quella strada a livello agonistico.

Ma non era il nostro caso; almeno, non in quel momento, nel quale volevo che le mie bambine, semplicemente, provassero a capire che mondo fosse quello della ginnastica.

Ebbene, persino lì, nella piccola palestra della scuola media di un paese, ad un certo punto, le pretese dell’allenatrice mi parvero sopra le righe, data l’età delle partecipanti al corso.

Durante ogni allenamento le mie figlie, insieme alle compagne, erano costrette a restare a lungo in fila, a piedi nudi, sul pavimento freddo; era vietato fare la pipì (nemmeno se scappava forte) prima di ogni esibizione. Ancora: era richiesto loro di ripetere l’esercizio finché l’allenatrice non si dichiarava soddisfatta.

Alla mia richiesta di spiegazioni a proposito di tali stringenti regole mi sentivo rispondere che “solo così sarebbero arrivati i risultati”.

La mia più piccola, ad un certo punto, piangeva alla sola idea di andare in palestra e lì, esattamente in quel momento, ho deciso che sarebbe finita l’avventura con la ginnastica.

E’ quindi plausibile che ad un livello ben più alto rispetto a quello esplorato da me le richieste, da parte di chi allena, fossero estreme.

Le indagini faranno emergere la verità, ma mi fanno un po’ sorridere i vari responsabili delle federazioni che adesso, solo adesso che sono esplose le denunce, si premurano di dire che “d’ora in poi sorveglieranno”, che “proprio non immaginavano”, che “lo sport deve essere prima di tutto sano”.

Tutto bello, tutto giusto, ma continuo a pensare che queste dinamiche fossero ben note anche prima del caos mediatico.

E le mamme (esattamente come mamma sono io) delle atlete? Dov’erano fino ad ora? Perché non si sono accorte che le loro figlie filiformi stavano morendo di quella ginnastica che forse, all’inizio, erano anche riuscite ad amare?

Un plauso va alle ragazze che hanno avuto il coraggio di denunciare. Ma proprio in virtù delle loro parole è indispensabile che certe prassi vengano del tutto eliminate per far recuperare alla ginnastica una sua dignità umana ancor prima che sportiva.

E c’è un ultimo tema, per nulla secondario: se da noi, in Italia, si decidesse di normare lo sport, anche ammettendo allenamenti duri ma mai mortificazioni psicologiche e corporali, quali risultati potremmo ottenere nelle competizioni internazionali?

Perché non possiamo ignorare che, invece, in altri Paesi, per esempio la Cina, il regime di allenamento in discipline come la ginnastica oppure il nuoto (ma forse in ogni sport) prevede una durezza estrema alla quale nessun atleta, forse per cultura differente, si sottrae.

Il confronto, come si può ben immaginare, sarebbe impari.

Ma forse, lasciatemi dire, meglio una squadra di farfalle vive che una manciata di medaglie d’oro senza nessuno che possa serenamente metterle al collo.

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