In nome della difesa dell’ultimo baluardo di italianità, ma soprattutto dei voraci interessi politici, si sono immolati in tanti e si sono bruciate centinaia e centinaia di milioni, arrivando alla bellezza di interventi dello Stato, dal 1974 al 2018, di 10.6 miliardi cumulati, di cui la metà spesi a dieci anni dalla privatizzazione del 2008. Una cifra monstre che non si può nemmeno immaginare. I politici di turno ne hanno fatto sempre un punto fermo delle campagne elettorali, per poi dimenticarsene in fretta. Il cliché è sempre lo stesso. Il nuovo management si insedia dopo aver dichiarato la strategicità dell’operazione. Lo sponsor fa pura propaganda dell’evento, accaparrandosi consensi immediati. Si redigono piani industriali con vari scenari. Si cercano partner in giro per il mondo interessati a partecipare alle cordate. Al momento dell’approfondimento, i sindacati insorgono e i cavalieri bianchi svaniscono come neve al sole. Il cerino rimane in mano allo Stato che eroga i prestiti-ponte, che arrivano immancabilmente a pochi giorni dal possibile fallimento.
Quando avevamo per le mani un possibile (buon) compratore – l’Air France -, l’Italia si è desta al grido di “vade retro, straniero”. Chissà se qualcuno si è mangiato le mani, poi. A giudicare dal fuggi-fuggi di tante compagnie aeree blasonate che si affacciano alla data-room e poi se ne vanno a gambe levate, direi che c’è parecchia gente in circolazione con i moncherini.
Eppure, le soluzioni studiate sono state anche fantasiose. Lo spezzatino sopra tutte, un pezzo qui e uno là, hai visto mai che qualcosa si riesce a valorizzare. Spuntano idee su società di servizi, si ipotizza anche lo spostamento della sede e via di questo passo.
Il problema reale, veramente insormontabile e difficile da aggirare, è il mastodontico organico. Purtroppo un livello di costi troppo alto, che affossa ogni possibile via di fuga. C’è poco da girarci intorno. La compagnia si è ingrossata nel tempo e la sua struttura schiaccia inesorabilmente la possibilità di racimolare qualche ricavo. E, siccome il tema è spinosissimo, la buona volontà dei numerosi volontari si arena nelle secche del terreno minato dell’esubero del personale. Mettiamoci anche la perdita di competitività, tradotta soprattutto in voli tagliati in rotte interessanti, sacrificati sull’altare della riduzione costi, e la frittata è servita. Buona anche riscaldata.
Sarebbe meglio il bianco o nero. O considerare l’Alitalia un asset strategico per il Paese e, quindi, smetterla definitivamente di parlare di profitti, oppure prendere decisioni impopolari ed entrare col coltello nella parte viva, per tagliare senza anestesia. Tutte le altre strade, pardon aeroporti, non hanno portato a nulla. Zero. Siamo più indietro del punto di partenza. Citiamo per onestà alcuni risultati raggiunti che servono solo per far parlare bene di sé, come il livello di puntualità dei voli effettivamente migliorato, il look del personale e degli aeromobili imbellettati e alcuni servizi in progresso. Ma la sostanza non cambia. Ci sono ormai colossi mondiali, standard e low cost, che guardano la nostra compagnia dall’alto in basso, quasi con tenerezza, tanto da non provare nemmeno a farci un affare.
Caro dottor Caio, le auguriamo comunque un patriottico “in bocca al lupo”. Conviene provarci, ancora una volta. Anche perchè è difficile fare peggio.