PERCHE’ IL VOTO A TAIWAN E’ ANCHE UN NOSTRO VOTO

Le elezioni in programma nel wek-end a Taiwan possono essere prese a esempio ancora prima che una sola scheda sia stata depositata dell’urna. Sono un esempio, e una rappresentazione ideale, dello stato in cui versa la democrazia: non solo in Oriente, ovunque.

Oltre 19 milioni di abitanti dell’isola votano, come scrive il sito Asia.Nikkei.com, in quelle che possono essere considerate “le uniche elezioni libere e regolari nel mondo di lingua cinese”.

Giusto, ma con che spirito votano? Il presidente della Cina popolare, Xi Jinping, non più tardi di qualche giorno fa li ha avvertiti che il futuro di Taiwan non può che risiedere nel ritorno alla “madrepatria”. Di Cina, ha detto Xi, ce n’è una sola e Taiwan ne fa parte: votino pure, gli abitanti dell’isola, ma sappiano che, in sostanza, è un esercizio futile. E che votare sia un esercizio futile è una sensazione che molti, anche dalle nostre parti, non fanno mistero di provare, basta guardare i dati sull’astensionismo. Forse, più che futile, si tratta di un esercizio di volontà talmente fragile da apparire superfluo. Troppo facile, da fuori, minacciarlo, condizionarlo, manipolarlo.

La Cina popolare ha provato a condizionare il voto in Taiwan in tutti i modi: con le lusinghe e, soprattutto, con le minacce. Xi è arrivato a consigliare il voto per il “candidato giusto”, il conservatore Hou Yu-ih, leader di quel Kuomindang un tempo fiero avversario dei comunisti e oggi schieramento da costoro prediletto per le sue aperture a rapporti più distesi, se non addirittura servili, con Pechino. Una posizione costata al Kuomindang le ultime due elezioni presidenziali e che Hou, un moderato, già sindaco di Taipei, mira a confermare rendendola però più “digeribile”.

Il “candidato sbagliato”, almeno dal punto di vista di Xi, è l’attuale vicepresidente Lai Ching-te, democratico-progressista, fermo sostenitore dell’indipendenza di Taiwan (storicamente garantita tuttavia dal forte legame economico e militare con gli Stati Uniti) e del “no” a Pechino.

Infine, per non farci mancare niente, c’è pure il candidato né giusto né sbagliato: il populista Ko Wen-je, il cui schieramento, a quanto pare, sta salendo nei sondaggi.

Gli esperti dicono che il voto, da un punto di vista geopolitico, è tutt’altro che futile: una vittoria dei conservatori più vicini a Pechino significherebbe l’avvio di una fase storica molto probabilmente destinata a sfociare nella riunificazione, specie se una coincidente vittoria annuale di Trump nelle elezioni di novembre, spingendo l’America verso una politica estera isolazionista, allontanasse l’isola dal radar d’interesse Usa.

Al contrario, la conferma al governo dei progressisti varrebbe per l’America, e per tutto l’Occidente, come richiamo alla responsabilità di difendere i fortini democratici laddove riescono a tener duro.

Ma il fatto che la posta sia alta, pur sottolineando l’importanza dei valori democratici, non ci rassicura sul loro stato di salute. Taiwan, come l’Ucraina, è un territorio di confine: un ritaglio di terra e umanità scelto per combattere la guerra mondiale in corso tra Usa, Cina e Russia. Noi, e con noi 19 milioni di taiwanesi, staremmo in teoria dalla parte della democrazia e della libertà. Parole che il voto, qui come in Asia, fatica sempre di più a riempire di sostanza. La cosa peggiore però sarebbe rinunciare a provarci.

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