PERCHE’ EPIFANI CI SEMBRA GIA’ DI UN’ALTRA ERA

di MARIO SCHIANI – Il tempo, giocando con la memoria, finisce per creare nella mente di ognuno di noi un mondo suo. Un mondo in cui non manca nulla – spazio, luce, colore, sapori, profumi, suoni, luoghi e persone – e dove tutto al confronto con la realtà sembra migliore. Chiamiamo “nostalgia” questa rifrazione della memoria e, per quanto ci ostiniamo a cullarla, spesso la ragione interviene a metterla in riga: il passato, riflettiamo, non era che un altro presente, e come tale probabilmente né migliore né peggiore di questo. Siamo creature che si affezionano, ecco il problema, ed è dura lasciar andare un vecchio presente per abbracciarne uno nuovo: siccome siamo costretti a farlo, ci lecchiamo le ferite con il rimpianto.

Eppure, di tanto in tanto, sorge il sospetto che la nostalgia non sia un sentimento ingannevole quanto invece una rassomigliante fotografia emotiva: sentiamo il rimpianto di certe cose perché a tutti gli effetti erano migliori o perché, con il passar del tempo, la società ha attraversato adattamenti che, forse nel tentativo di renderla più efficiente, hanno ottenuto soltanto di farla più ruvida, sbrigativa, superficiale.

L’effetto di dilatazione che la nostalgia impone al tempo vale soprattutto per le persone. Al confronto con le figure viventi che ci si parano davanti nel presente, così inconcludenti e piene di difetti, i personaggi del passato si fanno, al ricordo, benevoli e accomodanti, pieni di eterea saggezza, di ragionevole misura, di strategica sapienza, tanto che è facile, per loro, giganteggiare, ergersi a esempio di uomini di cui s’è perso lo stampo. La sensazione la si prova vivissima quando si confronta il presente della politica con il suo passato.

Non ho alcuna intenzione di usare la parola “nostalgia” in un contesto politico per rievocare, qui, sgradevoli fantasmi in orbace. La nostalgia di cui parlo è molto più a corto raggio e per questo tanto più sorprendente. Prendiamo la scomparsa, qualche giorno fa, di Guglielmo Epifani, già leader della Cgil e segretario, nel 2013, del Pd. Ho detto il 2013, quindi pochi anni fa, e ho scritto Pd, un partito tutt’oggi vivo e vegeto (anche se ci sarebbe da discutere su entrambe le definizioni): non stiamo parlando – questo il punto – di un personaggio che sfregava i gomiti alla bouvette con Giolitti e Crispi, e neppure con Nenni e Fanfani. Un politico di ieri, invece, neanche dell’altro ieri: quando svuotò i cassetti del suo ufficio al Pd fu per far posto a Matteo Renzi, non a Gramsci e neppure a Longo. Eppure, a paragone con i protagonisti della politica del presente, quelli con la faccia vista all’ultimo tg e il pensiero espresso nell’ultimo tweet, Epifani è già asceso nell’empireo dei giganti. D’istinto, per noi, appartiene al circolo dei De Gasperi e dei Parri, quando invece, cronologicamente, è in tutto e per tutto compreso nell’era dei Gasparri e dei Turigliatto.

Così forte è la sensazione che il terreno sociale e politico italiano ci stia franando sotto i piedi, che non è più la lontana stagione risorgimentale a sembrarci ammantata di leggenda: a provocare la lacrimuccia di rimpianto, ormai, basta il ricordo della Margherita e, chissà, potrà capitare che al tramonto, colti in un particolare momento di debolezza, scoppieremo in singhiozzi ripensando alla Rete e al Cdr di Mastella.

Un dirigente politico o sindacale – di qualunque schieramento – che ricordiamo aperto al confronto, misurato nel discorrere e munito di decenza e rispetto nell’individuare l’avversario e nell’interpellarlo, subito guadagna, agli occhi della nostra nostalgia, i caratteri di un cavaliere senza macchia e senza paura. E tuttavia Epifani, certo un galantuomo, non era e non voleva essere né un supereroe né un salvatore della Patria. Lo diventa solo oggi, quando quelli che invece non hanno vergogna a proclamarsi supereroi e salvatori della Patria un giorno sì e l’altro pure alla prova dei fatti franano miseramente, lasciandoci sempre più soli e, di conseguenza, sempre più aggrappati alla nostalgia.

 

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