PAZIENTE UNO

di CRISTIANO GATTI – Sommersi di numeri e di opinioni in libertà, ci eravamo quasi scordati di lui. E’ noto come Paziente 1, con questo gusto che abbiamo noi di sminuire in un veloce numero le storie dei singoli uomini, ma nella sostanza è Matteo, il 38enne atletico e sportivo, manager dell’Unilever, che per primo, a Codogno, ha contratto il fetentissimo Coronavirus.
Sparito dal radar, ricompare con un aggiornamento parecchio inquietante: giace ancora intubato, incosciente, gravissimo, nella terapia intensiva del San Matteo, a Pavia, l’ospedale che porta il nome del suo santo protettore, sperando lo protegga soprattutto questa volta. Il virologo che lo sta curando allarga le braccia e confessa: “Non sappiamo come finirà la sua lotta: stiamo combattendo contro un virus sconosciuto, qualsiasi sviluppo è possibile”.
La notizia è dedicata doverosamente a quelli che “quante storie per un’influenza, non vedi che muoiono solo i novantenni con un piede già nella fossa?”.
Così, solo per dire che non è poi così allegra, la faccenda.
Ma a parte questo, la notizia ci chiama in causa tutti con il nostro bagaglio di ideali e di valori personali. Siamo davanti a un bivio che non ci piace proprio, ma che è inevitabile: è giusto fermare un Paese per salvare una vita, poche vite, come quella di Matteo, magari riproponendo il famoso motto del Talmud chi salva una vita salva il mondo, oppure bisogna fare quattro conti in modo asettico e concludere che ogni guerra in fondo ha le sue vittime, accettiamo dunque il sacrificio di qualche Matteo, ma porca miseria salviamola a tutti i costi l’economia di questo Paese, forza, piantiamola con le buffonate e riapriamo tutto di corsa.
Ciascuno di noi sa nel suo segreto, là dove non possiamo raccontarcela, da che parte sta. E le risposte, tante volte, fanno più paura dei virus.

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