NEL SILENZIO GENERALE CI SIAMO SVENDUTI I CURDI

Una volta la chiamavano “realpolitik”. A praticarla, era gente come Otto von Bismarck, il cardinale Richelieu, il conte Cavour. E’ grazie a loro, e ad alcuni milioni di morti in guerra, se l’Europa è arrivata a essere come è oggi: una configurazione politica all’apparenza stabile, in realtà suscettibile di repentini e violenti cambiamenti. Il fatto che ormai da parecchi decenni buona parte del suo territorio non sia scosso da guerre (civili e non) significa ben poco: i vulcani sonnecchiano anche più a lungo, ma quando sbottano son dolori.

Dopo aver tirato in ballo la “realpolitik” sarà il caso di definirla. Si tratta di quell’atteggiamento che, in politica, è fondato sul pragmatismo più concreto, spinto al punto di ripudiare ogni base ideologica, ogni valutazione morale. Conta solo l’interesse nazionale e nel perseguimento di questo interesse il fine giustifica, anzi stra-giustifica, i mezzi.

Le nazioni europee hanno spesso praticato la “realpolitik”: questione di necessità, più che di innato cinismo. La prossimità di tante nazioni in un territorio ristretto non di rado ha imposto scelte basate sul realismo o, se si vuole, sul tornaconto immediato. Gli Stati Uniti, al contrario, hanno più agevolmente ostentato una condotta politica legata ai “principi” e ai “valori”, facilitati, in questo, dal relativo isolamento geografico ed economico.

“Realpolitik” è un termine novecentesco: oggi non lo si usa quasi più. Lo rievoca, senza citarlo, chi è favorevole a un’azione diplomatica morbida nei confronti di Putin: la Nato smetta di provocarlo, niente armi all’Ucraina, prendiamo esempio dal nonno di Orsini che, sotto il fascismo, era felice e non facciamo tante storie per un Donbass in meno o in più. Fino a oggi, le nazioni europee, alle quale aggiungiamo la Gran Bretagna anche se solo per ragioni geografiche, non hanno sposato la “realpolitik” preferendo un atteggiamento più duro. Fino a oggi.

Come sappiamo, infatti, nel rimuovere la sua obiezione all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, il presidente turco Erdoğan (nella foto) ha ottenuto concessioni importanti (e sinistre) circa l’estradizione dai due Paesi nordici di esponenti curdi che egli considera “terroristi”, ma sui quali – almeno su una parte di loro – la visione di Stoccolma ed Helsinki è diversa. Per arrivare all’obbiettivo più importante – ma forse sarebbe giusto dire più urgente e pressante – Finlandia, Svezia e l’Europa tutta hanno applicato la “realpolitik” al suo massimo, sottoscrivendo l’impegno a “esaminare in modo spedito e approfondito le richieste turche di estradizione e deportazione ancora pendenti”.

Quando la diplomazia usa un linguaggio così generico e vago è segno di coscienza sporca. Ai curdi l’Europa ha dedicato solenni espressioni di elogio quando combattevano contro l’Isis, oggi è pronta a voltar loro le spalle in nome della difesa dell’Ucraina e, più ancora, dell’argine contro le politiche espansionistiche di Putin. Dicendo docilmente sì ai ricatti di Erdogan.

Chi vorrà difendere l’accordo in nome dell’“urgente” e del “pressante”, troverà, tra le righe, decenti se non buone ragioni per farlo, individuerà margini di compromesso, aree grigie e opportunità di interpretazioni diametralmente opposte.

Il problema delle coscienze sporche, però, è che sanno di esserlo e non ci sono sofismi che tengano: abbiamo fatto un torto grave ai curdi e, guardandoci allo specchio, scopriamo di essere un po’ più rassomiglianti, oggi, al nemico che ci sforziamo di contrastare. Non ancora uguali, questo no, e ben lontani dall’esserlo, ma più deboli, vili e rassegnati.

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