NEANCHE STALIN CI AVREBBE IMPOSTO 25 ORE AL GIORNO DI SANREMO

Meno uno. Potrebbe anche essere l’annuncio di una aggressione, ma è il conto alla rovescia del Festival.

Ultimo giorno, mattino, pomeriggio, sera, notte, di spettacolo, canzoni, ospiti, farse, pubblicità. 25 ore abbondanti televisive in diretta dal teatro ligure, a queste vanno sommate tutte le altre, su tutti i canali, riservate all’evento che nemmeno un regime totalitario sarebbe capace di allestire e imporre al popolo.

Finisce da sfinito l’avvenimento più popolare del circuito radiotv italiano, a parte qualche terra straniera in debito di ossigeno, il Festival resta una sagra paesana rispetto a un passato che aveva anche il suo perché.

Mi spiego: quando ogni brano veniva cantato e interpretato da due artisti, un o una italiana e un o una straniera, si registrava un’eco internazionale, Gene Pitney o Louis Armstrong, Frankie Lane, Josè Feliciano, Shirley Bassey, Paul Anka, Petula Clark, Françoise Hardy, Pat Boone, Cher, Dionne Warwick, Wilson Pickett, Steve Wonder, Ray Conniff…

Vi bastano? Tutta gente capace di ricantare all’estero le nostre canzoni tradotte, dunque in circuito oltre Mendrisio e il Brennero.

Ma è roba giurassica, la generazione postmoderna abbisogna di autotune e abbigliamenti imprevedibili, la canzone è dettaglio marginale, alcune sono anche buone, ma è arduo comprendere il testo, per la pronuncia o dizione non per il significato delle parole. Si aspetta la fine. Nostra.

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