MAI AUGURARE A NESSUNO QUANTO E’ TOCCATO A ZAKI

Oggi siamo felici: Patrick Zaki torna libero. Non ancora assolto dalle accuse che gli muovono in Egitto – e che lui ha sempre respinto -, ma libero. E’ un passo importante e la nostra comunità nazionale lo festeggia nell’unico modo che conosce: con una gran partecipazione social.

Fioriscono gli hashtag come primule sulla neve, l’Ansa si riempie di dichiarazioni rilasciate da personaggi che ricoprono cariche istituzionali e da personaggi che vorrebbero da par loro ricoprire cariche istituzionali. Si pubblicano editoriali, vignette, analisi, si fanno battute di spirito e, più in generale, battute che di spiritoso hanno poco.

La comunità social italiana, insomma, somministra a se stessa un tonico: da noi qualcosa di buono ogni tanto accade anche fuori dallo sport. Forse l’Italia riesce ancora a farsi sentire, sia pure a fatica, sul piano internazionale e non è sempre detto che si debba finire trattati a pesci in faccia. Il nostro Paese non ha una gran stima di se stesso quando si presenta sulla scena mondiale, e questo spesso ha giocato a nostro sfavore: chissà che questa storia non ci aiuti a trovare un poco di coraggio diplomatico.

Più felici ancora di noi, ovviamente, i familiari di Patrick, anche se nessuno potrà essere felice quanto lui. In questi momenti, quando la speranza torna a riaccendersi, si dimenticano tutti i patimenti subiti in precedenza. Noi, invece, questi patimenti vorremmo ricordarglieli. Non per crudeltà, si capisce, ma per un senso di giustizia che dobbiamo a noi stessi.

Ventidue mesi in un carcere straniero equivalgono a un passaggio all’inferno. Non che trascorrere tanto tempo in una galera italiana costituisca una prospettiva più attraente, ma al senso di abbattimento portato dalla carcerazione occorre aggiungere nel caso di Patrick il completo distacco, il tattile senso di abbandono, la paura che ogni cosa possa precipitare da un momento all’altro senza che sia possibile uno sforzo di comunicazione a rendere il senso del tutto.

All’augurio che Patrick si liberi presto anche degli ultimi strascichi della sua disavventura, vorremmo aggiungere una riflessione che riguarda soprattutto il nostro modo di porci nei confronti del prossimo. Ogni volta che, oltraggiati da qualche avvenimento, impauriti da qualche minaccia vera o presunta, subito corriamo ad auspicare pene severissime, esemplari, perfino vendicative, dovremmo sempre cercare di temperare il nostro risentimento con l’idea dell’uomo in carcere, del singolo individuo intrappolato dall’applicazione frettolosa e fanatica di quella nobile ambizione umana – la giustizia – che scalda i cuori se pensata in astratto, ma che spesso nella pratica si traduce nel suo opposto, ovvero nella prevaricazione dell’uomo sull’uomo, nel meccanismo kafkiano che stritola le persone in nome dell’orgoglio diplomatico, del calcolo nazionalistico, dell’ambizione politica.

Ci è facile considerare Patrick Zaki una vittima, ed è giusto che sia così. Però di vittime nelle celle di tutto il mondo ce ne sono tante, tantissime altre: per aiutarle non possiamo fare di meglio che mantenere la nostra umanità, una certa serenità di giudizio, e preservare il pensiero di quei ventidue mesi rubati a un ragazzo. Una parentesi di gelo che, letteralmente, non dovremmo augurare a nessuno.

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