L’UMANITA’ DEL MEDICO ADESSO SI CHIAMA MEDICINA NARRATIVA

Ovviamente credo nell’importanza della comunicazione tra operatori sanitari e pazienti, così come so che una moderna medicina non deve curare solo le malattie ma le persone, ponendo attenzione anche agli aspetti emotivi e relazionali connessi al trauma della malattia. Se non fosse così rinnegherei tanti anni di lavoro. Eppure trovo eccessive alcune semplificazioni.

Prendiamo ad esempio il caso di questa nuova tendenza della “medicina narrativa”, una definizione tanto affascinante quanto vaga, che inizia ad essere in voga anche nel nostro paese.

Certamente è assolutamente condivisibile l’opinione secondo cui nella formazione universitaria dei medici, accanto al gran numero di nozioni – tutte indispensabili – da apprendere, sarebbe opportuno dedicare più ore anche agli aspetti psicologici, ma da qui ad affermare che sia sorto un nuovo paradigma scientifico ce ne corre.

La fondatrice della medicina narrativa è Rita Charon, medica internista appassionata di letteratura, il cui libro è considerato una pietra miliare per i sostenitori di tale approccio. A mio avviso, il testo contiene, insieme ad una serie di considerazioni utili, anche parecchie banalità.

Cito a memoria (comprai il libro qualche anno fa, lo lessi e lo prestai, senza più riaverlo) il racconto della Charon che regalò dei soldi ad un paziente in difficoltà, riportato come esempio di un’attenzione globale verso l’utente. Vero è che l’esempio è tratto da una visita avvenuta in un contesto privato, dove tale comportamento effettivamente è più raro, se non addirittura considerato sbagliato secondo approcci più ortodossi. Ma nella mia esperienza all’ospedale Cotugno di Napoli tanti colleghi ed io stesso abbiamo partecipato a collette per fornire pigiami, abiti e beni di prima necessità a ricoverati senza fissa dimora o, comunque, in gravi difficoltà. Sono certo che episodi simili accadano ovunque in Italia laddove gli operatori sanitari assistono i cosiddetti pazienti “fragili”. Quello che mi stupisce, marcando una differenza di sensibilità, è che a nessuno di noi sarebbe nemmeno venuto in mente di dedicare pagine di un libro a tali fondamentali e spontanei gesti di solidarietà, che reputiamo quasi routinari e scontati. L’americana Charon ne ha fatto, certamente insieme ad altro, un modello da proporre in tutto il mondo.

Cosa voglio dire? Ho conosciuto tanti medici valorosi e appassionati, capaci di comunicare e attenti alle emozioni dei loro pazienti, che magari non hanno ricevuto nessuna formazione specifica su questi temi, ma che in modo naturale e spontaneo applicano il bene universale e eterno dell’umanità, senza magari chiamarla medicina narrativa. Ovviamente ce ne sono altri, pochi per fortuna, superficiali e disattenti, assolutamente impermeabili all’acquisizione di competenze relazionali: per questi, non credo bastino lezioni di medicina narrativa per renderli davvero medici sensibili.

Indubbiamente dare spazio al racconto dei pazienti e dei loro familiari è cosa utile e gli operatori sanitari devono dare tempo e importanza al loro ascolto, così come scrivere o raccontare può essere un atto produttivo sia per i pazienti che per gli operatori al fine di elaborare le proprie emozioni. Certamente acquisire competenze comunicative e relazionali è ottima cosa, ma per favore non dimentichiamo che la buona medicina, di per sé, punta a realizzare un percorso di cura condiviso, personalizzato e che migliori le aspettative del paziente. Questo, da sempre. Anche da prima della Charon e della sua medicina narrativa.

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