LETTERA ALL’UNIVERSITARIA PIAGNONA

Non ho voglia, francamente, di vestire una volta di più i panni del laudator temporis acti: del vecchietto che ammorba il mondo con i suoi ricordi di un’epoca lontana e felice. Non è così: la mia epoca sarà pure lontana, ma non era particolarmente felice. E massime sul versante degli studi. Perché, per dirvela tutta, ai miei tempi ci tiravano un mazzo mica da ridere. Che vi devo dire? Ci eravamo abituati: a tutto ci si abitua. E, in più, i nostri genitori ci venivano a dire che ai loro tempi sì che l’università era dura: la nostra era una passeggiata di salute. Immagino che, a loro volta, i nostri nonni avessero raccontato la stessa cosa a loro: andava così la vita, in questo benedetto Paese.

Tuttavia, l’intemerata un po’ piagnucolosa della studentessa padovana Emma Ruzzon (nella foto) all’inaugurazione dell’anno accademico, lo confesso, mi ha infastidito: va bene lamentarsi, ma questa mi pare l’estrusione di una lagnosa professionale. Credo, tuttavia, che questa idea un tantino troppo facilista della vita e della fatica non le derivi da altro che dallo spirito dei tempi, lo Zeitgeist. Se ti ripetono per tutta la vita che lo studio deve essere piacevole, divertente, automotivante, facilmente te ne convincerai: e il duro scontro con la realtà fenomenica lo vivrai maluccio. In fondo, è la solita vecchia storia: se la realtà offende la mia teoria, si neghi la realtà. E se la teoria mi dice che l’università dev’essere un luogo inclusivo, aperto, gioioso, bisogna che sia così per forza. Viceversa, lo studio, specialmente a certi livelli (che, peraltro, l’università di oggi si sogna) è fatica: indefessa fatica. Altrimenti, non è studio: è cazzeggio culturale. E non ti rende erudito o anche solo colto: ti rende un cioccolataio dalla lingua lunga. Lo studio può perfino rasentare il dolore o l’ossessione: la tesi di laurea, che, oggi, è una specie di ricerchina da scuola media, poteva levarti il sonno per mesi ed anni. E, alla fine, nessuno si sognava di metterti in testa quelle ridicole piantagioni di latifoglie, che vorrebbero sembrare alloro: avevi fatto il tuo dovere e pedalare.

Dunque, più che le geremiadi della giovinetta in fiore, che dal palco universitario strepita contro l’eccesso di competizione, richiamando macabramente i suicidi di diversi studenti, mi pare valga la pena di fare qualche riflessione proprio sul tema del lavoro e del senso stesso della fatica. In molte lingue neolatine, il lavoro viene descritto con termini che rimandano alla sofferenza: travailler, trabajar, esprimono l’idea che lavorare significhi, a un dipresso, soffrire. Ed è vero: chiunque abbia affrontato studi solidi e seri potrà testimoniarlo. Ci si perdono il sonno e i polsi. Dalle mie parti, poi, l’etica del lavoro è un’autentica visione del mondo: fare diviene quasi fine a se stesso, fare per il fare, un valore in sé. Senza esagerare, è questo spirito di sacrificio, questa volontà di compiere il proprio dovere, che ha rimesso in piedi un’Italia devastata da una dittatura e da una guerra perduta.

Una volta, addirittura, esistevano solo due possibilità: lavorare o riposare in vista del futuro lavorare. Il tempo libero e, dirò di più, l’ossessione di come impiegarlo, sono un lusso moderno. Col passare del tempo, questo tempo libero si è dilatato, fine a diventare un semilavoro. La palestra, la gita fuoriporta, la corsetta serale, i libri, il cinema, lo shopping si sono specializzati, fino a creare le grottesche figure degli specialisti del tempo libero: autentici guru del come riempire i sempre più ampi spazi di non lavoro. E, per converso, lavorare è diventato sempre più spesso un passatempo: specialmente nel campo delle arti liberali. Le cene di lavoro, le colazioni di lavoro, i meeting nei posti più belli e lussuosi, hanno preso il posto del tradizionale “tasi e tira”. Fino all’aspirazione massima: la settimana cortissima di quattro giorni.

Normale, perciò, che i giovani, vezzeggiati da una scuola che s’imbelletta per cercare di sembrare simpatica, accarezzati da professori sempre più amichevoli e sempre meno autorevoli, rimbambiti da una propaganda demente sul pensiero debole, la società liquida, la cultura soft, pensino che, se appena appena cola una goccia di sudore sui sacri testi, si senta odore di reazione, di prevaricazione, di attentato alla loro libertà di non sbattersi e pretender tutto. Ma certo, aboliamola, questa maledetta fatica. La fatica e gli ostacoli, peggio ancora la musata e il fallimento.

Poi, presto o tardi, la vita ti presenta il conto, cara la mia studentessa padovana: quando dovrai produrre cultura, ti accorgerai che la scienza non si coglie, come i datteri, dalle piante, ma costa lacrime e sangue. E che frignare non ti aiuta a tradurre le Nozze di Stilicone. Ma, a quel punto, probabilmente, avrai già pronta la contromossa: sposare un odontoiatra o un notaio. E avrai comunque vinto tu.

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