L’AGONIA DELLA GUARDIA MEDICA (E DEL RESTO)

Un po’ come gli scioperi del lunedì e del venerdì, un po’ come le chiusure nei prefestivi di banche e uffici pubblici, un po’ come le epidemie in occasione di ponti e feste non comandate, solo che qui siamo altrove. Siamo dalle parti della servizio sanitario nazionale, sempre più minuscolo e sempre meno simbolo di civiltà di questo Paese, al nord come al sud.

Il due giugno è festa e cade di venerdì, tutti vogliono filarsela e godersi un lungo, se possibile molto lungo fine settimana, a partire da giovedì magari. In una postazione di guardia medica di Bergamo città, giovedì nel tardo pomeriggio sono previsti almeno tre medici in servizio, ma solo uno prende servizio, una dottoressa. Quando arriva, la coda è già consistente, ma aumenterà senza interruzione fino alla mattina del giorno seguente, con un carico di lavoro e tensione che possiamo solo provare a immaginare.

Dopo quindici ore di servizio ininterrotto e snervante, un servizio nel quale la lucidità dovrebbe essere imprescindibile, la dottoressa stremata chiude il turno, ben oltre i limiti e il carico previsti e prevedibili, e nemmeno è più in grado di mettersi alla guida, tale lo stress e l’affaticamento. Vanno a prenderla i familiari.

Per quindici ore il lavoro che dovrebbero fare in tre, almeno in tre, e in mezzo code infinite, tensioni tra i pazienti e tre decessi da certificare. Che sarà mai.

E gli altri? Gli altri non pervenuti, su undici potenzialmente disponibili, undici certificati di malattia. L’ironia è dietro l’angolo e verrebbe anche facile, ma parlando di sanità italiana l’ironia da un pezzo non ha più cittadinanza. Ci dicono che ci sono mille motivi per essere ottimisti e che le cose possono solo migliorare, ce lo dicono da trent’anni o poco meno in realtà, c’era ancora Rosy Bindi, che quasi ora siamo costretti a rimpiangere. Ce lo dicono da quando le cose in fondo a noi pareva funzionassero, ma siccome bisogna sempre innovare, fare meglio, allora per inerzia vuoi non metter mano a una cosa che quasi, dico quasi, funziona?

Da lì in avanti, l’ironia proprio non si può evitare evidentemente, le cose hanno iniziato a precipitare. Il cittadino, malato e dolente e in quanto tale bisognoso di aiuto, possibilmente celere, ha cominciato a sentire qualche scricchiolio. E va detto che il cittadino ci sentiva benissimo, gli scricchiolii erano lavori in corso, le procedure di distanziamento sociale erano iniziate, altro che Covid.

L’uomo da curare e l’uomo curante hanno cominciato ad allontanarsi. Ora ci parlano di App per comunicare col medico, di case della comunità, di appuntamenti, di informatizzazione, ci parlano di novità che renderanno la nostra sanità più efficiente, ma vorrei ricordare a tutti quegli scricchiolii.

Qualcuno dovrebbe ricordare agli innovatori che sono proprio quelle novità a renderci pessimisti e indurci a figurare un servizio sanitario pubblico in rovinoso e irrefrenabile sfacelo, di cui lo sciagurato turno della dottoressa bergamasca è solo uno tra i tanti possibili indizi.

C’entrano sicuramente le App, gli appuntamenti obbligatori, l’informatizzazione, c’entra sicuramente la rigida contrattualità di certe aziende sanitarie, la concorrenza e la convenienza per i medici (non certo per i malati) delle offerte private, ma soprattutto c’entra il fattore umano.

La sanità nazionale è ormai un’azienda punto e come tale ragiona per numeri. Non c’è più spazio per il lato umano, per l’urgenza, per l’uomo prima che per il paziente. Quando per i medici di famiglia venne introdotto l’appuntamento obbligatorio ne avemmo il sentore, avvertimmo lo scricchiolio, ora per qualcuno anche solo avere un medico di famiglia, magari nel paese di residenza, è un sogno. In mezzo e tutto intorno i dirigenti, gli innovatori, più o meno tutti messi lì dalla politica mediocre, lavorano per noi ci dicono, e dire che a loro un po’ di assenteismo, se non un prepensionamento, lo perdoneremmo.

Servirebbe un cataclisma, oppure una guerra. O una pandemia, meglio ancora. Allora sì torneremmo a capire come dovrebbero funzionare le cose, allora sì scuola e sanità tornerebbero a funzionare. Nella normalità noi non ci sappiamo stare.

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