L’ADDIO A MAGARA MAZZONE, IL MONDO PERDE UN PEZZO PREGIATO DI UMANITA’

Carletto non era un bambino, nonostante il nomignolo. Aveva ottantasei anni e ha deciso di salutare la comitiva proprio nel giorno giusto, l’inizio del campionato di calcio, dunque una fetta grandissima della sua vita, calciatore prima e allenatore dopo.

Carlo Mazzone ha chiuso la sua storia in un sabato caldo mentre le sue squadre, Roma, Lecce, Fiorentina, Bologna, Cagliari, Napoli, dico quelle di serie A, si preparano a giocarsi una stagione strana. Non è mai stato strano Mazzone, romano niente affatto caciarone ma di pasta buonissima e fresca e genuina. Avrebbe potuto recitare in un film qualunque di Vanzina, certe frasi sue restano nella memoria di chi ha potuto ascoltarle esplodendo in una risata plautina e verace: “Amedé, quante partite hai giocato in serie A?”, la domanda rivolta a Carboni che, dopo una poderosa discesa sulla fascia, aveva tentato il colpo vincente: ”350 mister”. E quanti gol? “4, mister”. Amedé allora ‘ndo cazzo è che vai? Torna in difesa.

Questo potrebbe essere il riassunto di un modo di affrontare lo sport e il calcio, poche balle e i fatti sopra tutto, perché questi contano oltre alle frasi belle che riempiono la pancia dei tifosi e dei giornalisti, ma gonfiano e basta. Mazzone è stato maestro di tattica, un tartufaio che sapeva dove cogliere i pezzi migliori, Pirlo e Baggio, Guardiola e Totti, bastano? Avanzano e tutti gli devono riconoscenza, non oggi che Carletto non c’è più, ma durante la loro carriera di gloria, dopo aver appreso lezioni semplici ma importanti come soltanto i veri maestri sanno insegnare.

Mazzone ha girato l’Italia non arrivando mai, però, al grande football delle milanesi e della Juventus, era troppo genuino ed immediato per quei teatri frequentati da grandi attori, ma anche da figuranti e comparse mediocri. Carlo sapeva di calcio come pochi davvero, lo spiegava con parole facili, non arzigogolava, non cercava alibi da perdente, se gli chiedevi se fosse pronto a battere l’avversario più forte, rispondeva “Magara!”, e questo diventò il suo distintivo di riconoscimento.

Sesto con l’Ascoli è roba inimmaginabile prima e dopo, terzo con la Fiorentina, idem come sopra. Gli abbiamo voluto bene, tutti nessuno escluso, pure la curva dell’Atalanta sotto la quale e verso la quale li mortacci furono mille.

Ogni tanto ricordava la frase di suo padre:“Me devono solo imparà a morì”. Ecco, la partita è finita.

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