LA (SOTTO)CULTURA DEL BRANCO OFFESO

Ormai sancita da infiniti episodi, una nuova cultura sta prendendo sempre più piede, nuova ma in verità antichissima, primordiale. La ritorsione contro l’ordine costituito sempre e comunque colpevole, là dove un figlio, un parente, un amico, un compagno di brigata è vittima in realtà di una disgrazia o degli effetti delle sue azioni.

Il figlio viene bocciato o rischia di esserlo? Voci grosse e minacce garantite. Il cugino sta in coda al pronto soccorso? Voci grosse e minacce garantite, se lo si fa aspettare ancora un po’. Per sventura muore? Quei maledetti dottori la pagheranno e nel frattempo il vostro bell’ambulatorio lo facciamo a pezzi. L’amico viene fermato dalle forze dell’ordine? Come si permettono? Voci grosse e minacce garantite, di nuovo.

A Bari l’ultima, incredibile puntata. Christian Di Gioia, 27 anni, non si ferma a un posto di blocco, viene inseguito dai carabinieri, e dopo poco perde il controllo della moto. La caduta è fatale, ma gli amici non ci stanno.

Per lui si mobilitano decine e decine di sodali a bordo di motociclette, clacson spianati a scortare il carro funebre, un corteo che decide le sorti del traffico della città, sovvertendo qualsiasi norma, il tutto a corollario delle minacce di rito: «Vorrei vedere un’intera caserma in fiamme, voi siete la vera mafia, non noi. Che Dio ve la faccia pagare», «Non la passerai liscia, la pagherai», intimidazione quest’ultima a un militare individuato come il principale responsabile.

Secondo gli amici la caduta sarebbe stata causata da uno speronamento ad opera delle forze dell’ordine, da qui il corteo, da qui le minacce, ma le indagini al momento non hanno rilevato alcuna prova a confortare tale ipotesi.

L’ultimo capitolo del romanzo dei clan, della famiglia intesa come nucleo inviolabile e intoccabile, da chiunque, nella ragione come nel torto. Nessuno naturalmente contempla l’ipotesi che lo sventurato Christian, che lascia una compagna e un figlio piccolo, sia vittima della sua negligenza e non sono qui a insinuare alcunché, solo a rimarcare questa cultura vittimista incline all’aggressività, che non ammette sgarri, nemmeno presunti, al punto che nel dubbio li presume e li certifica con la ceralacca che incide il simbolo della tribù di appartenenza.

Una cultura di quartiere che non ammette ingerenze, che non ammette uno Stato che si intromette nei propri affari e pretende di dettar legge sull’ordine pubblico, sulla sanità, sulla scuola poi. Una cultura che se ne frega di dover convivere con altre persone, una cultura che non ammette una cosa pubblica, un sentire comune, un esser parte di qualcosa che non sia il proprio recinto. Una cultura che non ammette l’altro e figuriamoci un altro modo di pensare, la possibilità che possa esistere un pensiero diverso da mettere a confronto del proprio.

Si chiama regressione, ad ogni modo, la discesa senza freni verso la cultura tribale, la cultura del clan, la cultura del branco. Il quale non di rado scavalca il recinto e i danni sono davanti agli occhi di tutti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *