LA ROMA SENZ’ANIMA CHE RUBA IL GASOLIO ALL’AMA

Sulla brutta faccenda del furto di gasolio da parte dei dipendenti dell’AMA, l’azienda romana che si occupa dei rifiuti, credo che valga la pena di spendere parole diverse da quelle che normalmente si usano in questi casi: vicenda italica, sconcio pubblico e via vituperando.

Che più di duemila dipendenti di un’azienda, nel corso degli anni, derubino l’azienda stessa è notizia che merita i vituperi di cui sopra. Che, poi, quest’azienda sia pagata dai cittadini non fa che rendere più odiosa la grassazione. Ma che ciò avvenga in una città sommersa dai rifiuti e che dovrebbe essere d’esempio al resto della nazione, mentre ne rappresenta il mortificante lato B, questo rende tutto quanto francamente insopportabile.

Talvolta io mi domando: ma che razza di gente sono i Romani? Cosa diavolo sono diventati e cosa ha prodotto una decadenza così imbarazzante? Poi, ci rifletto, e penso ai tanti miei conoscenti e amici romani, che sono persone perbene, attive, pulite, e devo concludere che esistano due fattispecie di cittadino romano: un po’ come i patrizi e i plebei. Nella Roma antica, questi due gruppi non erano, come spesso si crede, classi sociali, sibbene categorie antropologiche: tanto che molti storici sostengono che, addirittura, provenissero da stirpi diverse. Oggi, si direbbe che questa invalicabile frontiera tra ottimati e plebe esista ancora: da una parte, i Quiriti, fieri della propria identità e innamorati della propria meravigliosa città, tanto da rispettarla e onorarla. Dall’altra, la plebaglia, senza patria e senza onore: flaccida e deforme spiritualmente.

Il mio caro amico Marcello, in una sua bellissima canzone dedicata a Roma, parla di “…pilastri, che sono le ossa di un Dio”. E’ amore, amore vero. Come da questo comprensibilissimo amore per Roma si possa passare all’essere Romani alla maniera della nota canzone di Alberto Fortis mi risulta, invece, incomprensibile. E i tantissimi ladri schifosi che hanno rubato, denunciando un’indole miserrima, quei litri, pochi o tanti di gasolio, facendo spallucce, dicendo il solito “così fan tutti”, meritano un’aggravante clamorosa: l’averlo fatto a Roma. Nella magnifica, nobilissima, sporchissima Roma, tradita e svillaneggiata da questi panzuti con la patta slacciata, coi loro “Embè?” i loro “Che cce voi fa’?”, la loro sesquipedale assenza di spina dorsale, di morale, di senso etico.

E non due o tre, ecco il punto: migliaia di dipendenti hanno tradito la propria azienda, la propria città, il proprio retaggio. Questo vuol dire che l’AMA era una specie di tetta da succhiare: una lupa capitolina cedevole e bisunta. E, al posto dei gemelli, il cui destino sarebbe stato quello di eternare al mondo quel cantuccio tiberino, ci sono questi immondi profittatori: questa gente normale. Normalmente disgustosa. Che, probabilmente, è talmente inviluppata nel proprio universo senza regole, sciatto, cialtrone, da non rendersi nemmeno conto di avere commesso un odioso reato: “Embè?”, “Che cce voi fa’?”.

Che questo scandalo colossale possa essere la goccia che fa traboccare il vaso io non lo credo: troppo incistato è il malcostume romano e troppi interessi squallidi ci sono dietro questi fenomeni. Però, mi piacerebbe vedere nei Romani veri un sussulto d’orgoglio: mi piacerebbe che, per un attimo, si ricordassero chi sono e quale formidabile storia stia sulle loro spalle. Allora, farebbero piazza pulita di ladri e faccendieri, adulatori e ruffiani. E, dalle Malebolge dantesche, la Città Eterna tornerebbe a essere quella fiamma lucente che tutti vorremmo, a capitale del nostro Stato. Invece, temo che non sarà così: che la Quarta Roma verrà ricordata per i cinghiali in strada e per i maiali nelle pubbliche amministrazioni.

Meglio primo in un villaggio della Gallia che secondo a Roma, diceva Cesare. Meglio onesto in un paesino della val di Scalve che con le tasche piene all’AMA, dico io.

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