LA PACCHIA DEL POS

Forse solo l’Italia poteva avvitarsi con tanta sprecata creatività attorno al tema del Pos, ovvero del Bancomat, ovvero del denaro di plastica contro il denaro di carta. Forse solo un Paese che scambia rivendicazioni micragnose per fondamentali diritti umani poteva trasformare un dibattito – in sé legittimo – in una sfida da OK Corral o in faida da Basso Medioevo. Una questione sostanzialmente tecnica elevata (o ridotta?) a scontro ideologico nel quale, peraltro, l’ideologia stessa presto annuncia la resa: “Siete troppo anche per me, io me ne vado: continuate voi”.

Ci deve essere un bel sostrato di malcontento esistenziale per trasformare qualsiasi occasione di confronto in una rissa, in una guerra tra bande, in un diritto naturale del più forte. Abbiamo un bel problema di autostima se per ogni questione pretendiamo che qualcuno corra in nostra difesa, seminando il panico tra i nemici: perché, è chiaro, noi siamo le vittime e “loro” sono i cattivi, i privilegiati, quelli che, fino a un minuto fa, hanno goduto della “pacchia” che, per fortuna, adesso “è finita”.

“Finita la pacchia” è una frase fatta elevata a slogan politico-elettorale che viene attribuita al governo in carica. Qualunque cosa significhi – probabilmente, come tutti gli slogan, ben poco – è ora diventata il moto degli “oppressi” che intravedono un riscatto, quei sans culottes del XXI secolo, ai quali ancora, incomprensibilmente, si nega una ghigliottina attorno alla quale radunarsi il sabato pomeriggio.

In assenza di pubbliche esecuzioni, ci si tiene in esercizio ammonendo i presunti “aristocratici”, gli sfacciati sbafatori di croissant, che, appunto, la “pacchia è finita”. Come ha fatto quel tassista di Genova rifiutandosi, con toni aggressivi, di accettare il pagamento Bancomat proposto da una cliente, casualmente la pluricampionessa italiana di lancio del martello, Silvia Salis, oggi vicepresidente vicaria del Coni. “Finita la pacchia delle banche” ha urlato e specificato il tassista, secondo il resoconto proposto dalla signora sul suo profilo Instagram. Ed ecco che il rifiuto non è sintomo di lazzaronite o tentativo di riparare il guadagno dallo sguardo del fisco; per carità, giammai: si tratta invece di un’audace ribellione contro i poteri forti, una sfida al perverso sistema bancario, una dichiarazione di guerra ai Rothschild, alla massoneria giudaica. Figuriamoci: qui ci battiamo per il riscatto degli oppressi, per un grande ideale, mica per far passare in sordina una transazione, tanto meno per evadere le tasse. Per chi ci avete presi?

Beh, per italiani vi abbiamo presi. Solo per italiani. I quali hanno tante qualità, tantissime, e anche qualche difettuccio: non ultimo quello di piangersi addosso. Ma non ammettono di poterlo fare per interesse personale, per piccolo, meschino tornaconto. No, bisogna che la lamentela si nobiliti a grido esistenziale, a chiamata alle armi, a “ça ira” dell’F24 semplificato.

L’uso del denaro di plastica certamente comporta qualche inconveniente per gli esercenti e altrettanto certamente implica guadagni per i sistemi che lo governano. Però offre anche un servizio e delle garanzie e dunque deve essere accomodato nella nostra vita quotidiana, rinunciarvi sarebbe stupido. Alla politica il compito di prevedere controlli, argini e tutele. Al tassista quello di essere civile: gentile con i clienti e, semmai, puntuale nel presentare e argomentare le sue rimostranze nelle sedi opportune. Altro che sventolare in faccia al prossimo il vessillo lacero del “finita la pacchia”. Qui di “pacchie”, a ben guardare, non ce ne sono mai state: non per chi lavora e cerca di tirare avanti senza fare il furbo. E qualcosa ci dice che, tra questi, non necessariamente troveremmo in prima fila il tassista genovese.

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