Giovanbattista Cutolo, il giovane musicista ammazzato a Napoli per il parcheggio di un motorino, e il suo assassino. Chi dei due rappresenta davvero un’anomalia, un’eccezione? L’assassino è la risposta che pare più ovvia, l’assassino è la tessera ammaccata e inservibile che deturpa la società civile italiana, questa è la risposta che pare scontata e inevitabile.
Quel che è accaduto è terribile, raccapricciante, anche se siamo ormai abituati a una cronaca efferata: pistole, coltelli, stupri e tutto il resto, eppure qualcosa ancora non torna, qualcosa innesca pensieri inquietanti, a voler aprire lo sguardo intorno a noi.
Il profilo, lo scenario, le parole dell’assassino riescono persino a sparigliare l’ordine naturale del disgusto. Perché di mala creatura si tratta e non vi è alcun dubbio, ma a voler delinearne i contorni emerge un essere banale e ordinario, discepolo della mediocrità generale, criminale dissennato eppure dozzinale, decisamente in linea con il suo tempo.
Sono i contorni che lui stesso ci offre, a partire proprio dal disgusto che lui non sembra minimamente provare, subito dopo lo sparo è andato a giocare a carte, ammette, ed è innanzitutto questo che lo rende quintessenzialmente rappresentativo di un rozzo cliché nazionale, quanto meno del giorno d’oggi.
Fuggire in modo automatico dalle responsabilità, a maggior ragione dall’orrore che uno provoca, quante volte negli ultimi tempi abbiamo assistito a questa dismissione della propria coscienza, sempre che uno ce l’abbia, da parte di assassini, stupratori, seviziatori, truffatori. Da parte di chi dovrebbe semplicemente abbassare la testa, scusarsi e poi tacere avvilito e umiliato. E invece no.
«Non volevo uccidere, non sapevo neanche di averlo colpito e che fosse morto, dopo gli spari l’ho visto anche camminare e io sono scappato. Ho sparato per difendermi». Ma infatti, che mai sarà, stavamo a litigare e ho sparato qualche colpo, così, mica pensavo di uccidere. Capita, no? Si discute, qualche spintarella, qualche insulto e poi pure qualche proiettile, quanto la fate lunga.
Tutto normale in fondo. Come i precedenti, come le frequentazioni malavitose, come le smargiassate, come l’iconografia tra gangster e demonio, tutto rigorosamente messo in mostra sul profilo di rito. Io sono il diavolo, gli piaceva ripetere sui social: certo, dark e maledetto, come piace adesso.
Non insinuo che la maggior parte dei ragazzi italiani vaghino per le strade delle città con un’arma da fuoco pronta all’uso e nemmeno avanzo il sospetto che tutti vantino relazioni pericolose dentro e fuori la delinquenza. Neppure sono convinto che i più mettano in vetrina i propri presunti trasgressivi pensieri eversivi, ma c’è qualcosa, un modo di reagire ai propri errori e alle proprie follie, un certo stile di vita, che in modo allarmante e sconvolgente si percepisce nelle posizioni di chi ci immagineremmo invece tormentato e afflitto.
Non si può assimilare un omicidio a una topica qualsiasi, non si può assimilare l’omicidio a nulla, ma la fuga da sé stessi è palpabile. Si direbbe una fuga da un’etica di lealtà, verso se stessi innanzitutto, se non fosse che di questa etica non si avverte alcuna traccia, pare inesistente.
La società è cambiata, non solo nella malavita, nemmeno dovremo stupirci in effetti. Non è forse normale provare a farla franca e dare a intendere che non si voleva uccidere, così come non si voleva rubare, così come non si voleva intendere quel che si è detto? Poco importa che sia una menzogna banale o un’infamia che può macchiare gli altri a vita o, peggio, una pallottola che spezza una vita.
La nuova morale è farla franca sempre, procurarsi una scusa, un’attenuante, un lasciapassare per il giorno dopo. E poi via sui social, il mondo che conta.
Chissà, tra un po’ scopriremo magari di aver travisato anche l’assassino di Giovanbattista Cutolo. E’ stato frainteso, certo.