LA LEZIONE DI ZAKI E REGENI A TANTI GIORNALISTI

Penso a Patrick Zaki e per associazione mi viene subito in mente Giulio Regeni. Li penso e li vedo come due gemelli, anche se non si sono mai visti né conosciuti, però figli della stessa idea. A quanto pare non finirà allo stesso modo, non deve finire allo stesso modo, Giulio ha subito il martirio fino alla fine e Patrick potrebbe fermarsi prima dell’irreparabile, come tutto il mondo spera.

Sono casi diversi, ma c’è un filo rosso che nessuno può recidere, tra le loro storie feroci e spietate. Certo, l’Egitto. Ma quello in fondo è il lato più semplice della faccenda. Qualcosa di più profondo e di più insondabile è la lezione che questi due ragazzi impartiscono a noi giornalisti, a tanti di noi.

Due di questi giovani d’oggi che ci piace dipingere comodosi e sdraiati, ascendente smidollati, hanno inseguito il loro sogno fino alla fine, senza spostarsi di lato nemmeno davanti alle violenze più brutali e ai pericoli più cupi. Regeni ci è rimasto, Zaki ne resterà soltanto segnato, ma nessuno dei due ha fatto un passo indietro. Men che meno ha pronunciato l’abiura rispetto alle proprie idee, che in fondo si riassumono tutte in una sola, l’idea meravigliosa di difendere la libertà e la verità.

Tanti di noi giornalisti, che lo dicano o no, pensano così: dilettanti allo sbaraglio, sono andati a ficcarsi nei guai, declinazione solo un pelo più misericordiosa del famoso se la sono cercata.

Ma se solo riuscissimo a sbaraccare la nostra arroganza e il nostro narcisismo, almeno una volta, da questi due ragazzi dovremmo prendere e apprendere il messaggio più alto e più semplice.

Tanti giornalisti di nome e di grido non hanno mai conosciuto il gusto di questo coraggio. Nemmeno un giorno solo. Né mai lo proveranno, campassero mille anni, perchè così è l’uomo che si nasconde dietro al giornalista, a un certo giornalista. Gente che ha imboccato questa professione al solo scopo di piacere e compiacere, soprattutto compiacere, godendosi la panna montata della celebrità, dei favori, degli agi e delle comodità.

Giulio e Patrick saranno anche improvvisati e dilettanti, per certi giornalisti togati e infrattati. Ma quanto è vero Dio erano malati di passione, erano decisi a mettersi in gioco, a rischiare, per avvicinare di quel poco la verità, a qualunque costo, fosse anche il costo di torture e pestaggi nelle peggiori carceri del mondo estremo.

Almeno questo dovremmo riconoscerlo, noi giornalisti, tanti di noi. Noi, tanti di noi, cui certo non sono neppure richieste simili prove, le prove toccate ai due giovani martiri. Non è che dobbiamo sentirci tutti in dovere di finire sotto tortura, per uscirne migliori. Basterebbe molto meno. Basterebbe la dose sindacale di dignità per fare bene il proprio mestiere, schierandosi sempre dalla parte della verità, o quella che così ci appare, anche se ci fa togliere il saluto da qualche potente, anche se ci fa arrivare qualche telefonata prepotente, anche se a Natale nessuno ci manda più il regalo.

Sì, basterebbe davvero molto meno di quanto è toccato a Giulio e Patrick. Eppure tanti di noi nemmeno percepiscono più lo squallore del proprio ruolo servile e opportunista, soffocano sul nascere qualunque slancio residuo dell’uomo eretto e liberano felici il maggiordomo che abita dentro.

Poi è chiaro che Regeni e Zaki diventano nelle opulente tavolate di questi ambienti due ragazzini sprovveduti, due imperdonabili impiastri, che dovrebbero prima imparare come si sta al mondo.

Resta il fatto che in loro due tutti noi dovremmo specchiarci. Per vedere di quanto divergono i profili, i connotati, le posture. E magari scoprire che loro, a un’età così giovane, hanno già vissuto più vite di quante ne abbiano vissute tanti di noi, arrivati a una certa età. Tanti per cui ormai il giornalismo scomodo è solo quello di restare sempre in ginocchio, davanti a qualcosa o a qualcuno, senza provare la minima compassione per se stessi.

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