LA GRANDE FUGA DAL LAVORO

Il mondo del lavoro si sta letteralmente disintegrando, almeno per come l’abbiamo sempre pensato. Assistiamo a una vera e propria rivoluzione silenziosa di cui pochi si stanno davvero accorgendo, perché tendiamo a rispondere ai singoli episodi piuttosto che guardare al quadro generale. La domanda è molto più alta dell’offerta, cioè non si trova personale a tutti i livelli? Ci piace dire che è un momento così, magari dopo la pandemia si riprenderà il normale corso. Ci sono dimissioni di massa? Sì, ma è un fenomeno passeggero, si vede che in certe aziende qualcosa non funziona. I candidati ai colloqui chiedono rassicurazioni certe sul nuovo modo di lavorare come lo smart working, il luogo di lavoro stesso, la qualità e gli orari da rispettare? Si sa che i giovani pretendono molto, è nella loro natura. Si parla di settimana corta sempre più frequentemente? Va bene, è una moda passeggera. Il lavoro da remoto sta cambiando il mix di presenza fisica e virtuale, tanto da ripensare seriamente a nuovi spazi lavorativi? Vedremo quanto dura, pensiamo dentro di noi. Manager di successo smettono di colpo per dedicarsi ad altro, rinunciando anche a compensi dorati? Beh, certo, loro possono fare quello che vogliono.

Invece no. Dobbiamo entrare in una nuova logica, che non mette più il lavoro al centro di ogni cosa. O quantomeno il lavoro inteso come moloch intoccabile, per cui si rinuncia a tutto o a tanto della nostra vita. Il cliché classico del posto fisso l’abbiamo già messo in cantina da tempo, adesso siamo costretti a pensare che anche un posto interessante non sia più attrattivo in sé. La gente non si accontenta più della remunerazione in cambio di prestazioni, vuole condizioni collaterali extra di “clima e comfort” che gli diano le motivazioni giuste, al di là di ogni possibile concessione che anche le aziende-imprenditori più moderni possono dare. Come se non ci si accontentasse più, ancora prima di iniziare. Stanno cominciando a prevalere più le aspettative, che le concrete possibilità di dare risposte. La fedeltà – altro tabù crollato miseramente negli ultimi decenni – è diventata una chimera. Le persone si sono abituate a cambiare posto non appena si intravvede una minima possibilità di miglioramento, spesso effimero e che si esaurisce in fretta: stanno aumentando, infatti, i tentativi di rientro, manovra tortuosa e destinata a fallire il più delle volte. Credo che la gente, sotto sotto, non si fidi più e non si voglia legare in nessun modo, preferendo percorsi a zig-zag “mordi e fuggi”, senza pensare a costruire nel medio-lungo periodo.

La domanda è proprio questa. Un nuovo approccio di questo genere è una liberazione positiva e necessaria per abbandonare vecchi e attuali modelli lavorativi obsoleti verso un futuro più evoluto, oppure è solo un tentativo di disimpegno travestito da modernità verso stili di vita con meno responsabilità? Da stipendio sicuro a libertà sicura?

Mentre ci pensiamo e prendiamo coscienza che c’è in atto un cambiamento radicale, è meglio che le imprese e le organizzazioni in generale comincino a scervellarsi su come adattarsi intelligentemente al nuovo corso, invece che sottovalutare e anche snobbare il fenomeno.

In tutti i casi, alcuni paletti dovranno rimanere saldi nel terreno, per non farsi trascinare dai venti della rivoluzione. Tra questi, citiamo serietà e senso di responsabilità, che non potranno mai mancare, veri valori universali che attraversano generazioni e tendenze.

2 pensieri su “LA GRANDE FUGA DAL LAVORO

  1. cristina dice:

    Una riflessione importante, è vero che non si stia facendo il punto su questa tendenza. Del lavoro si parla ancora come bisogno perché la voce diventa grossa quando manca, quando cercare di portare a casa denaro lavorando vuol dire annaspare per trovare un rimedio alla povertà. Ma quelli che ce l’hanno il lavoro, o che possono trovarlo con una certa agilità, come lo percepiscono esattamente? Semplicemente come il mezzo più sicuro per avere di che vivere bene. Il valore intrinseco del lavoro come crescita, costruzione, come mezzo per sviluppare meccanismi o prodotti che servono alla comunità in quanto tali ed in quanto veicolo di organizzazione ed ordine dov’è? In quanto ingranaggio cardine della comunità dov’è? E’ perso come sono perse tante altre istanze umanistiche, schiacciate dall’egocentrismo, dal qualunquismo. Il lavoro in quanto valore (come la serietà del resto) stenta perché il disimpegno è divenuto un valore più grande. Lo si vede ormai esteso in tutti gli ambiti della nostra vita, dal più importante al più banale. Il messaggio del godimento, della leggerezza, del mordi e fuggi e poi rimordi fanno audience. Vorrei poter girare il mondo ed osservare cosa accade nelle società con stili e culture lontane dalla nostra. E’ ancora conservato un pensiero profondo sul valore del lavoro? Probabilmente si, sicuramente in alcuni luoghi ancora si pensa al lavoro come alla fatica di costruire qualcosa, ma forse è solo questione di tempo o di religione, politica. Noi siamo rampanti quando possiamo, freschi personaggi che si muovono come danzando, come se il mondo fosse nostro, come se avessimo capito tutto. La pandemia certo ha portato il tema del valore della vita più evidente a tutti, esacerbando i concetti che riducono l’esistenza ad un momento personale in cui passi nella storia e poi te ne vai senza aver lasciato traccia, o peggio ancora avendone lasciate alcune tristi, che ti sembrano pure non male. Sono finti i quadretti familiari che incontriamo sui social, finti nel senso più superficiale del termine, sottendono affettività certo, ma non vanno al nocciolo delle relazioni . Come nelle aziende spesso si sottendono professionalità che rimangono in copertina, riescono poco ad emergere nelle pagine.
    Così è la nostra società, le aziende possono fare qualcosa certo. Il datore di lavoro può orientare il comportamento professionale, può ridare valore al fare, al pensare e rendere il lavoro un pensiero filosofico prima ancora che un agire determinato solo dal denaro. Ma chi comanda è sempre la nostra necessità di alleggerire le esistenze, e i media lo sanno troppo bene.

  2. carlo canciani dice:

    Interessante pensiero, che da stimolo ad ulteriori riflessioni. Molti giovani non si accontentano più, ancora prima di iniziare ? E’ possibile, dipende sopprattutto se possono permettersi qualcuno che li mantenga : 15 anni fa venivano definiti ” bamboccioni “, oggi c’è chi vorrebbe assimilarli agli ” addicted al reddito di cittadinanza “… Ed in entrambi i casi c’è 1 parte di vero ed 1 parte di generalizzazione gratuita ed interessata. Una cosa è certa : finchè le bollette della luce, del gas, i vari mutui ed i rendiconti della Fidaty Card delll’Esselunga continueranno ad arrivare implacabili a fine mese, ci sarà necessità di trovare e mantenere un lavoro, possibilmente regolare. Il fatto di non rendere questa 1mera attività passiva di ” timbraggio del cartellino” è principale responsabilitità delle Aziende, nel scegliere chi prendere, come assisterlo, come formarlo, come incentivarlo a raggiungere gli obiettivi suoi e dell’Azienda…Tutte cose scritte da tempo nei libri, ma spesso assai scarsamente praticate nella realtà … O no ?

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