LA CLAUSTROFOBIA DEGLI ASSASSINI

Luca Sacchi fu ucciso con un colpo di pistola nell’ottobre del 2019, a Roma. Una brutta storia di soldi e droga che vide implicata anche la fidanzata, Anastasiya Kylemnyk, condannata a tre anni.

In primo grado sono già stati condannati pure Valerio Del Grosso (condanna di 27 anni) e Paolo Pirino (condanna di 25 anni), oltre a Marcello De Propris (condanna di 25 anni) per aver fornito l’arma.

Come si è saputo, pochi giorni fa era in programma l’udienza per l’appello, ma a distanza di quasi quattro anni chi davvero deve patire la condanna più feroce sono i genitori di Luca Sacchi. I legali degli imputati sono riusciti a far slittare l’udienza in quanto i loro assistiti soffrirebbero di claustrofobia e il mezzo predisposto per il trasferimento dal carcere al tribunale sarebbe stato troppo piccolo.

I commenti del padre di Luca non hanno bisogno di cornice: ‘Pirino e Del Grosso soffrono di claustrofobia? Se lo dice un medico va bene, ma quando erano in due nella Smart e hanno ucciso mio figlio non soffrivano di claustrofobia?’’, ‘’Per noi genitori è sempre un’agonia venire qui e poi qui si parla di cavilli’’.

Aggiunge la madre, desolata: ‘’Anche io, dopo la morte di mio figlio, soffro di tachicardia e attacchi di panico, non vedo l’ora che finisca tutto e restare col mio dolore’’.

Ignoro cosa vogliano o sperino di ottenere imputati e legali con lo slittamento, ma come si possa da avvocati sostenere e appoggiare simili scappatoie rimane per me incomprensibile: deve esserci per forza una sospensione della sensibilità umana, per forza deve diventare un gioco autoreferenziale a scovare l’escamotage, anche se non dubito ci siano coscienze straziate nella categoria, proprio a causa di astuzie come queste.

E poi il medico. I legali ci provano, ma il medico lo certifica, nero su bianco, e ancora di più ignoro quale motivazione possa esserci nel sottoscrivere la diagnosi, sui generis e bizzarra anche nella forma, trattandosi di claustrofobia di coppia, come una miniepidemia sviluppata dopo l’omicidio evidentemente, trasmessa tipo Covid come mille altre magagne immaginarie. Chi può escluderlo, aggiungerei, con amarezza e un po’ di schifo addosso ripensando alle parole del padre.

Sta di fatto che dobbiamo immaginarci i due killer in preda a “sudorazione accentuata, brividi o vampate di calore, battito cardiaco accelerato, nausea, sensazione che manchi l’ossigeno e timore di morire” (come recita la sintomatologia della diagnosi), non per l’omicidio e il senso di colpa, ma per l’insostenibile angusto spazio del cellulare della polizia penitenziaria.

Non sono atterrato ieri dalla luna e nemmeno devo scendere dal pero, so bene che così funzionano le cose nella procedura penale, ma vorrei continuare a voler conservare una certa dose di ingenuità e di stupore di fronte a simili affronti. Perché comunque la si guardi, la coda di questa storia appare come una bestemmia.

Rimane l’amaro, non digestivo, che resta sullo stomaco, l’amaro di chi sembra non avere la coscienza straziata per quello che ha commesso, per le vite annientate con un colpo di pistola: quella di Luca Sacchi, quelle dei suoi genitori e quelle dei genitori dei loro carnefici.

Sarà poi magari l’ingenuità di aver letto “Delitto e Castigo”, l’ingenuità di credere nell’inevitabile tormento. Ma in fondo, qualcuno mi dirà, quello era solo un romanzo, non la realtà. O forse era il contrario?

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