LA BUROCRAZIA ANDREBBE MULTATA QUANDO USA L’ITALIANO

Dunque sostiene Rampelli, vicepresidente della Camera: “Le leggi devono essere facilmente interpretabili. A patto di non contenere forestierismi”. Sostiene Rampelli che dovrebbe esistere una legge che vieti l’utilizzo di parole straniere nell’amministrazione pubblica, per ragioni di comprensibilità, ma anche perché “è evidente che i processi di globalizzazione mettono a rischio, quasi ovunque, le lingue madri”.

Le dichiarazioni così ben commentate dal nostro Cimmino vengono da un’intervista pubblicata sul “Corriere della Sera”, ma compaiono ovunque, il pensiero pervasivo di Rampelli è fluido e liquido, nella diffusione quantomeno. Siamo un po’ tutti d’accordo sulla gratuita esondazione di termini stranieri, anglosassoni per lo più, nella parlata dei tempi correnti. si diventa o si crede di diventare cool e trendy, ma in effetti si diventa per lo più ridicoli, anche perché la pronuncia è quasi sempre imbarazzante.

Provare per credere, basta prestare attenzione alla dizione di parole come stakeholder, performance, benchmark, ma anche fundraising (che nella pronuncia diventa quasi sempre tragicamente “faunresin”), underdog, endorsement, competitor, management e così via.

E va bene, siamo tutti d’accordo, ma se l’uso è un abuso, l’idea di una legge con tanto di multe resta assurda e un po’ davvero fa tornare alla mente le grottesche restrizioni del ventennio fascista, quando lo smoking doveva per forza essere la giacchetta da sera, il boy-scout il giovane esploratore e il pullover il maglione.

Questo per dire che, pur consapevoli e guardinghi e anche un po’ feroci nei confronti degli eccessi, la lingua fa quel che vuole, o meglio quel che gli uomini vogliono. I linguisti possono agevolmente spiegare all’impettito Rampelli che non c’è modo di mettere confini e barriere alla commistione linguistica. Se molte, moltissime parole del mio dialetto, il bergamasco, suonano francofone, il motivo è proprio nel fatto che Alpi o non Alpi la lingua vola. Una parola come carciofo, ad esempio, che in dialetto bergamasco fa articiòch, te la ritrovi in inglese (artichoke), in francese (artichaut), in tedesco (artischocke), in spagnolo (alcachofa), tutte inevitabilmente imparentate, figlie di un amante in ogni porto e incuranti che l’italiano articiocco abbia fatto da elemento unificante e ancor prima l’arabo al-ḵaršūfa.

Un conto è il buon senso, altro è la folle, superba e in definitiva ignorante presunzione di poter tenere a freno la parola e il pensiero con una legge e con le multe che ne conseguono.

A cosa serve un divieto, a produrre inciampi verbali nelle manifestazioni pubbliche? Ad assistere a goffe retromarce dell’amministratore pubblico al quale è scappata la parola in inglese e vuole evitare la sanzione? Dai, siamo seri, e soprattutto cerchiamo di essere degni del ruolo che abbiamo accettato in rappresentanza del popolo italiano.

Quanto è bella la parola ‘potere’, figlia della libertà più nobile, della libertà di scelta, di poter scegliere, e quanto sa essere ottuso e ignorante invece a volte ‘il potere’. Alla domanda dell’intervistatore che gli chiede se “possiamo ancora mangiarci, tranquillamente, un croissant”, Rampelli risponde: “Mangi, sereno, il suo croissant. La proposta di legge per tutelare la lingua italiana interessa soltanto gli enti pubblici e privati”. Bontà sua.

Poi magari, un giorno, chissà, potremmo anche parlare dell’italiano usato dagli enti pubblici. Italiano e basta, senza contaminazioni straniere. Italiano?

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