LA BOMBA ATOMICA, TORMENTO DI EINSTEIN

Infuriano i conflitti in Ucraina e in Medio Oriente, per molti soglia di una terza Guerra Mondiale con annesso lo spauracchio atomico che aleggia puntuale, sinistro, costante sulla testa del pianeta.

In un’inquietante coincidenza, il cinema ha proposto quasi contemporaneamente – 5 anni dopo “Radioactiv” che narrava la storia di madame Marie Curie e del marito Pierre – il ritratto di due giganti della scienza come Oppenheimer e Einstein, tutti legati da intuizioni e scoperte che avrebbero portato alla bomba atomica. Senza che nessuno dei due, vorrei dire dei quattro includendo i coniugi Curie, potesse minimamente immaginare né tanto meno volere l’uso che l’uomo avrebbe fatto del loro genio.

Mi soffermo sul docufilm “Einstein e la bomba”, da pochissimi giorni in programmazione su Netflix. Il regista Anthony Philipson ha cucito – a mio avviso con sapienza, grazie a un montaggio efficace e mai banale nei 74 minuti di prodotto – un affresco della vita in esilio dello scienziato insieme con filmati d’epoca autentici, utilizzando nella sceneggiatura esclusivamente frasi scritte o pronunciate realmente da Einstein.

Il risultato è snello e convincente, efficace nei contorni perché Philipson non si è preoccupato più di tanto della riuscita cinematografica (“I capelli e il trucco non vinceranno nessun Oscar”, scherza “Rolling Stone” nella sua recensione), ma badando ai contenuti, andando direttamente al sodo in ogni secondo dell’opera.

“La bomba era un prezzo che valeva la pena pagare per la pace?”. In questa domanda che Einstein si pone dopo lo sgancio dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki, c’è tutta l’essenza dei suoi tormenti che hanno radici ancora più lontane.

“Einstein e la bomba” si preoccupa dei rimorsi del genio: il primo, quello di aver abbandonato la Germania immediatamente dopo l’ascesa di Hitler al potere. Nel 1932, infatti, da ebreo, pacifista convinto e padre della relatività (“Sospettosamente astratta” per il Terzo Reich), intuisce per primo quanta violenza e atrocità saranno in grado di consumare il Fuhrer e i suoi spietati adepti, oltre al pericolo per la sua vita. Privato di tutti i suoi beni in Germania, viene aiutato a fuggire dagli inglesi in una sperduta capanna di Norfolk, protetto dal comandante Oliver Locker-Lampson, un politico britannico e ufficiale della Marina interpretato da Andrew Havill, e da due giovani donne armate 24 ore su 24. Tutto vero. Con questa strana compagnia, in poche settimane nascerà un rapporto intimo fino al celebre discorso alla Royal Albert Hall nell’ottobre del 1933, immediatamente prima del trasferimento negli Stati Uniti, dove Einstein (interpretato da Aidan McArdle in maniera sobria, credibile, apprezzabile) si stabilirà definitivamente senza mai più tornare in Europa, fino al giorno della sua morte, nel 1955.

Il docudramma si sofferma sul periodo storico e sui sentimenti contrastanti di un uomo grande, e solo nelle sue inquietudini, politiche e ideologiche, prima che scientifiche: “Al male organizzato deve rispondere il bene organizzato” è il pensiero che il genio confida agli inglesi e che sfida il suo stesso pacifismo integralista, così strenuo da farne per assurdo un combattente (“Non basta essere pacifisti: bisogna essere pacifisti militanti”).

Einstein è perplesso sul fatto di rilasciare interviste o semplicemente partecipare a un convegno per esuli ebrei in Inghilterra, perché i suoi discorsi potrebbero avere ripercussioni atroci sui suoi connazionali ancora in Germania, ma si convince che con il silenzio non è possibile contrastare l’infamia nazista: non si può tacere di fronte allo sterminio. E’ preoccupato che Hitler per primo prepari e utilizzi la bomba atomica e per questo scrive al presidente americano Roosvelt, il quale infatti accelera i tempi del “Progetto Manhattan”: entrambi (e Oppenheimer con loro) non tennero mai in considerazione il fatto che quell’arma letale potesse essere utilizzata per annientare decine di migliaia di civili. Aver sottovalutato le conseguenze è la ragione del tormento e del rimorso. Quel concetto così semplice, rivoluzionario, secondo cui “una piccola quantità di massa può generare un’enorme quantità di energia” si ritorce contro l’anima di Albert Einstein, ed è questo che il docufilm a mio avviso esprime centrando perfettamente il bersaglio.

“Così come ‘Oppenheimer’ anche ‘Einstein e la bomba’ offre un’analisi riflessiva sulla creazione della bomba atomica e sul ruolo dei suoi protagonisti, sebbene con approcci narrativi e stilistici diversi”: un’altra recensione che condivido e che è l’essenza, il significato del messaggio che arriva ai posteri. Il messaggio tragico di come questa perversa umanità trasformi anche le più grandi, significative, straordinarie risorse, in armi di distruzione.

“La bomba era un prezzo che valeva la pena pagare per la pace?”. Nella risposta implicita che trasmette il suo interrogativo sta tutta la mesta, avvilita eredità di Albert Einstein: no, era un prezzo da non pagare, perché la pace su questa terra è destinata a non durare. A non esistere.

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