IO E IL COVID: DIARIO / 3

Svegliarsi col Covid isolato nella tua stanza solo come un cane non è una sensazione piacevole.

La notte è stata parecchio agitata. Da giovane soffrivo di sonnambulismo, riuscivo a compiere delle imprese incredibili senza rendermene conto: meno male che però qualcuno mi fermava. La più eclatante accadde in una casa in riva al mare quando, nel pieno della notte, mi calai agilmente dalla finestra in costume da bagno, con tanto di spugna ed espadrillas in mano e andai spedito verso la spiaggia. Mia sorella e mia cognata, tra il divertito e il preoccupato, mi seguirono da vicino e capirono al volo che ero in trance. Alla fine dovettero per forza svegliarmi con un sonoro ceffone, prima che mi andasii a tuffare pericolosamente tra onde minacciose.

Questa volta chissà cosa diavolo sogno, fatto sta che mi metto a urlare, emettendo lamenti disumani. Accorre mia moglie, quasi travolgendo la cassettiera-barriera che lasciamo all’ingresso della camera per il cibo. Lo spavento si dissolve con i miei e i suoi occhi stralunati, e una mia frase decisamente poco indicata, “tutto a posto, non è successo niente”.

Oggi è il giorno del tampone molecolare prenotato dal medico di base. Mi vesto a dovere – per fortuna la febbre è sotto controllo -, arrivo all’hub suggerito. Entro nel piazzale e vedo una torre di babele all’aperto che si snoda tra i giardini. Non realizzo subito che è la coda che mi dovrò sorbire. Ci sarà un errore o un ingorgo temporaneo, penso ingenuamente. Nessuno alla reception, ovviamente, informazioni da chiedere agli infreddoliti compagni di sventura. La fila si sdoppia in due tronconi, creando non poca confusione e inevitabili polemiche, una per la scuola, l’altra per i prenotati ATS e con la prescrizione del medico. Ci sono 5 gradi, ma almeno non piove. A occhio, conto circa duecento persone. Si procede al rallentatore: un’ora, due ore. E tanto malessere in tutti quanti: in fondo, saremmo pur sempre malati. Allo scoccare delle due ore e quaranta riesco ad accedere nell’atrio. Altri trenta minuti per arrivare esausti dall’infermiera. Totale tre ore e dieci.

Non lo dico perchè tocca a me, lo dico perchè va detto: è una vergogna per un paese civile. Super Mario e il suo prode ministro Speranza si dovrebbero interrogare per una prova così palese di disorganizzazione, per di più ai danni di persone che soffrono, dopo aver varato decreti a nastro con maggiore restrizioni. Erano proprio così imprevedibili assembramenti simili? Ma per favore. A quasi due anni di distanza siamo ancora qui a fare file al freddo, c’è gente che tossisce, con 39 di febbre, ci sono anziani che non ce la fanno, la maggior parte sono positivi come me, un vero lazzaretto. E nessuno che pensi a un minimo di rimedio d’emergenza. Mettere i biglietti come dal salumiere è così impensabile? Nel frattempo uno si potrebbe rintanare in auto per scaldarsi. Istruire qualcuno che esca per informare sul da farsi? Provare a convocare di nuovo gli alpini o altri volontari (come per i vaccini) che aiutino la gente, distribuendo tè caldo come fa qualsiasi oratorio? Generale Figliuolo, adesso che i tamponi sono una criticità più alta dei vaccini, distacchi un po’ di gente e faccia vedere che l’esperienza può servire. Richiamate i riservisti, fate qualcosa in fretta. Ma fatela.

Qual è il collo di bottiglia? Le due sole impiegate per il check in e le due sole infermiere per i tamponi: troppo poco personale per gestire una simile marea umana. Inaccettabile. Ma la domanda vera è: serve davvero una conferma molecolare, se l’antigenico positivo è considerato già una prova molto affidabile? Infatti l’hanno abolita il giorno dopo il mio calvario, tempismo da bradipi. Mai prevenire, mi raccomando.

Sembra passato un secolo dai complimenti della Merkel all’Italia su come stiamo gestendo la quarta ondata. Il sentimento prevalente è l’indignazione. Bisognerebbe ribellarsi a tanta inefficienza, scendendo anche in piazza. Noialtri popolo qualunque dovremmo parlare meno di divieti per feste e veglioni, di discoteche chiuse, tutti a piagnucolare come lagnoni: su questi aspetti sostanziali e scandalosi dovremmo alzare la voce, altro che aperitivi e skipass. Per i tanti cittadini come me che hanno fatto diligentemente le tre dosi e non solo, ci si aspetterebbe un servizio decente e rispettoso, magari con qualche sorriso di consolazione. Anche questa sarebbe Grande Bellezza, forse la forma migliore. Ma mi pare che queste umiliazioni della gente malata lasciata per ore in mezzo alla strada non interessi a nessuno. “Ne usciremo migliori”, come no.

Torno a casa surgelato e stanco, mi sento uno straccio. Fisicamente e moralmente. M’infilo nel letto per scaldarmi e provo a riprendermi. Ma la penosa sensazione che il Covid sia una maledizione non solo come virus entra sotto le coperte con me.

(3- continua)

IO E IL COVID: DIARIO / 2

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