“IO CAPITANO”, UN FILM NUDO E CRUDO, ALTRO CHE APOLOGIA DELL’IMMIGRAZIONE

Ho visto finalmente “Io capitano”. Mi avevano detto che, sin dal trailer, suonava un po’ come apologia dell’immigrazione e dell’accoglienza. Sull’ultima inquadratura del film (premiato all’80a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia con il Leone d’Argento alla miglior regia per Garrone e con il Premio Marcello Mastroianni al miglior giovane attore emergente, conferito al giovane protagonista Seydou Sarr), mi sono un po’ arrabbiato con gli autori di quei commenti che mi avevano accompagnato alla visione. Ormai è sempre e solo propaganda, è tutta propaganda: chiunque si impossessa di qualcosa per fare propaganda, non esistendo più alcuna ideologia, nessun valore che porti all’orientamento politico, alla conoscenza della storia.

Dirò quindi ciò che “Io capitano” ha trasmesso a me, umile spettatore e non certo – come chiarisco sempre – critico cinematografico. Anzitutto, la pellicola è ambientata tutta in Africa: racconta la storia vera (ma non è difficile pensare che Matteo Garrone di storie vere ne abbia sommate diverse, nella trama) di due cugini che decidono di abbandonare di nascosto le famiglie, contrarie alla loro partenza, per raggiungere l’Italia dal Senegal. Partendo da Dakar con un pugno di soldi accumulati segretamente facendo mille lavoretti, dovranno attraversare il Mali, il Niger e arrivare in Libia. Sono animati dal sogno di diventare famosi grazie al rap: non scappano dalla fame o dalla guerra, vogliono solo avere una vita migliore che hanno scoperto grazie ai telefonini.

Da subito, la loro ingenuità si rivela fatale quando si imbattono, sorpresi e indifesi, in delinquenti che sono i primi a vessare, schiavizzare, torturare, ammazzare o sfruttare in maniera disumana i loro “fratelli” neri. Mischiati tra questi infami mafiosi, trafficanti, scafisti. Il viaggio è un calvario accompagnato da violenze su di loro e sui loro sventurati compagni di viaggio.
Le vicende reali cui Garrone si ispira sono quelle di alcuni migranti, in particolare Kouassi Pli Adama Mamadoum che arrivò in Italia 16 anni fa dalla Costa d’Avorio dopo essere stato imprigionato e torturato per 40 mesi in un campo libico, e quella del minorenne Fofana Amara, che aveva portato in salvo centinaia di persone su un’imbarcazione partita dalla Libia e, una volta in Italia, era stato arrestato e condannato come scafista. Il capitano, appunto.
A parte il riferimento al soprannome di Salvini, “capitano” appunto, di politica italiana o propaganda da qualsiasi latitudine se ne trova davvero poca. Semmai, la grande forza di una pellicola dura e cruda sta nel mescolare eventi e cronache cruente con momenti di magia, come in una favola, come in “Pinocchio”. Il parallelo, che ho letto a firma di Daniele Lombardi sul sito “Anonima cinefili”, è azzeccatissimo: ci sono il gatto e la volpe, i truffatori che massacrano i fuggitivi – molti dei quali disperati e animati eccome dall’abbandono della miseria – in cambio di pochi spiccioli; c’è Geppetto, un anziano senegalese che aiuta il protagonista; c’è la balena, cioè il deserto che sarà il teatro del primo supplizio e il mare che sarà l’ultimo. E c’è la magia, magistralmente intervallata da Garrone tra un evento reale e l’altro: una resurrezione, un sogno, una stregoneria… Sorreggono il sogno dei due cugini.
Accompagnato dal linguaggio e dai suoni autoctoni, il racconto è riuscito alla perfezione nel trasmettere quanto drammatica sia la realtà vissuta in Africa prima di sbarcare in Italia, come nessuna cronaca quotidiana riesce a descrivere compiutamente, se non attraverso le immagini dei barconi, dei naufragi e le notizie delle morti. Che poi attraccare nel nostro Paese sia o no una fortuna, sia o no la realizzazione di qual sogno, questa è tutta un’altra storia: non la conosceremo mai abbastanza, così come il finale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *